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sabato 25 ottobre 2014

ZUCKERBERG IN INDONESIA: INCONTRA WIDODO (MA SAPPIAMO A CHI APPARTIENE FACEBOOK??...............ALLA "CIA")

13 ottobre 2014

Zuckerberg in Indonesia: incontra Widodo e visita tempio buddista 
Giacarta (Indonesia),

Mark Zuckerberg, presidente e amministratore delegato di Facebook, ha incontrato a Giacarta il presidente eletto dell'Indonesia, Joko Widodo, che ha basato la sua campagna elettorale su un estensivo uso del social network, molto popolare nel Paese. "È stata una fantastica conversazione", ha detto Zuckerberg. "Fra le grandi priorità che Widodo ha comunicato in campagna elettorale ci sono la crescita del lavoro e quella dell'economia.

Penso che la crescita di internet e della connettività siano fra i modi migliori per raggiungere tali obiettivi", ha aggiunto. "Stiamo cercando di fornire servizi di base e accesso economico a internet a due terzi della popolazione mondiale non connessa", ha detto Zuckerberg, in viaggio per promuovere il progetto internet.org, una partnership fra Facebook e sei compagnie di telefonia mobile per aumentare l'accessibilità alla rete.

"Ovviamente vogliamo che molte persone si connettano e usino Facebook; il progetto internet.org e la volontà di connettere la gente non servono principalmente a fare soldi, soprattutto nel breve termine", ha proseguito Zuckerberg.

L'Indonesia è il quarto Paese del mondo fra i maggiori utilizzatori di Facebook; secondo il portavoce della compagnia Andy Stone, gli utenti attivi mensili nel Paese sono 69 milioni, 61 dei quali accedono al sito tramite dispositivi mobili.

Tuttavia, la maggioranza dei 252 milioni di persone che compongono la popolazione indonesiana non ha accesso a internet.

A una domanda in conferenza stampa sulla sua esperienza d'uso di Facebook in Indonesia, il ceo ha risposto semplicemente che "funziona", suscitando l'ilarità generale e minimizzando sulle numerose lamentele nel Paese a proposito della velocità della connessione a internet. Zuckerberg è arrivato in Indonesia ieri e, prima dell'incontro ufficiale di oggi con Widodo, ha visitato il tempio buddista di Borobudur sull'isola di Giava, pubblicando sul proprio profilo Facebook una foto su uno dei suoi Stupa.

"È stato bellissimo arrampicarsi su questo tempio e qualcuno della nostra squadra ha scattato una foto e l'ha pubblicata. È andata online immediatamente e ora la foto è in un sacco di posti. Ci sono luoghi in cui si viaggia e non è possibile fare cose basilari come questa", ha detto Zuckerberg. Poi ha concluso: "Ovviamente queste non sono le opportunità economiche o culturali più importanti offerte dalla connettività, ma è stata un'ottima prova del nove".


MA CHE COSA E' IL PROGETTO "INTERNET.ORG"???? VEDIAMO :

Facebook ha rivelato ulteriori dettagli sul progetto Internet.org. Impiegherà droni per rendere disponibile Internet in tutto il mondo. Ecco le novità.
Internet.org  300x199 Internet.org: il progetto di Facebook per portare il Web nel mondo


Per raggiungere l’obiettivo Facebook ha reso nota l’intenzione di realizzare droni molto particolari.
Con il termine “droni” l’azienda intende velivoli completamenti autonomi che potrebbero raggiungere  dimensioni simili a quelle dei velivoli commerciali.

La Connectivity Lab pare pertanto decisa a seguire questa linea di pensiero, realizzando così droni in grado di godere di una autonomia di svariati mesi se non addirittura anni.

Le ultime notizie giungono proprio dal direttore tecnico del Connectivity Lab, Yael Maguire, che le ha rivelate durante un’intervista rilasciata su Mashable. “Per riuscire a far volare questi aeroplani per mesi o per anni su singola carica, dobbiamo consentire loro di raggiungere vette molto elevate”, ha dichiarato.

Maguire ha inoltre menzionato le dimensioni dei droni, simili a quelle di un Boeing 747. Altra singolarità dei droni sarà nel peso totale, che sarà all’incirca quanto quello di quattro pneumatici.
Si è parlato anche dei test di lancio, che potrebbero iniziare già nel 2015. Obiettivo di questa iniziativa risulta quello di rendere disponibile l’accesso ad Internet anche in quelle zone che attualmente non hanno copertura.

Un’opera interessante che porterà vantaggi alle popolazioni che fino ad ora non hanno potuto godere della connessione a Internet, e senza dubbio rappresenterà anche un ritorno economico per l’azienda.
Grazie alla vendite di pubblicità e altri servizi online sia Facebook che Google, entrambi impegnati in un progetto simile, potranno allargare in modo importante il loro bacino di utenza.

Quali sono le aziende interessate :
Samsung, Nokia, Ericsson, Opera Software, Mediatek e Qualcomm.

LA MIA DOMANDA E' QUESTA, PERCHE' GLI USA SONO INTERESSATI ALL'INDONESIA????

Ricordo un articolo di molto tempo fa e lo pubblico senza commenti :


Facebook è della CIA?  

   di Ernesto Carmona*


26/05/2009

I media celebrano Mark Zuckerberg come il giovane prodigio che a soli 23 anni è diventato miliardario grazie al successo di Facebook, ma non prestano attenzione agli "investimenti di capitale a rischio" per più di 40 milioni di dollari effettuati dalla CIA per sviluppare la rete sociale.

Nel 2008, quando la frenesia speculativa di Wall Street ha portato gli incauti a ritenere che il valore di Facebook fosse pari a 15 miliardi di dollari, Zuckerberg si trasformò nel più giovane miliardario "che si è fatto da solo" nella storia della classifica della rivista Forbes, con 1.500 milioni di dollari. Fino a quel momento, il capitale a rischio investito dalla CIA sembrava aver ottenuto un buon rendimento, ma il "valore" di Facebook nel 2009 si è attestato al suo livello reale facendo scomparire Zuckerberg dalla lista di Forbes.

La bolla Facebook è stata gonfiata quando William Gates, proprietario di Microsoft, nell'ottobre 2007 ha acquisito una partecipazione del 1,6% per la cifra di 240 milioni di dollari. Ciò ha portato ritenere che se l'1% di Facebook costava 150 milioni di dollari, allora il valore del 100% sarebbe stato pari a 15 miliardi di dollari, ma l’inganno finì per sgonfiarsi. La questione fondamentale è che Facebook esiste grazie ad un investimento di capitali a rischio da parte della CIA.

Nel 2009, i media non hanno lesinato nella "propaganda informativa" la celebrazione del culto di Zuckerberg come paradigma del giovane imprenditore vincente, ma la reiterata diffusione di questa "notizia" non ha sortito l'effetto di far sì che la rivista "Forbes" lo mantenesse nella versione 2009 della sua classifica (1). Il giovane prodigio era scomparso dalla lista, nonostante l'intensa campagna della CNN e dei principali media mondiali che riflettono gli interessi di Wall Street. "Forbes" è come l'Oscar delle grandi imprese e gonfia o sgonfia il valore delle azioni.

Secondo un'inchiesta del giornalista britannico Tom Hodgkinson pubblicata nel 2008 dal The Guardian (2) e commentata da alcuni media indipendenti di lingua inglese, ma senza alcuna ripercussione sulla grande stampa, 
la CIA ha investito su Facebook molto prima che diventasse uno dei più popolari social network di Internet.

La propaganda aziendale ha fatto sì che il portale diventasse un sinonimo di successo sociale, popolarità e di buoni affari. Facebook è presentato come un innocuo sito web di reti sociali che facilita i rapporti interpersonali.

La sua popolarità fa leva sul fatto che i suoi circa 70 milioni di utenti aumenteranno a 200 milioni in tutto il mondo in un paio di anni, basandosi sulla migliore performance settimanale in cui ha acquisito fino a due milioni di nuovi utenti. Tuttavia, Facebook non convince tutti.

Critici e detrattori


"Chi non è su Facebook non sta da nessuna parte o è antisistema", dicono alcuni. È come avere una nuova immagine ma senza contenuto, per darsi importanza nel megacentro commerciale in cui si è trasformato Internet, in sostituzione delle vecchie piazze, dicono altri. La maggior parte dice che è uno strumento pragmatico per rincontrare i vecchi compagni d'infanzia e della giovinezza persi nei passaggi della vita. I suoi fautori di sinistra lo ritengono utile per promuovere la lotta contro la globalizzazione ed il coordinamento delle attività, come per le campagne contro le riunioni del G8.

Il giornalista spagnolo Pascual Serrano ha descritto come è stato utilizzato dal governo della Colombia per coordinare la giornata internazionale contro le FARC che nel 2008 ha segnato l'inizio dell’offensiva propagandistica contro la guerriglia e che continua tuttora. Ed è palese che Facebook sia stato strumentalizzato dalla CIA. Per Walter Goobar, di MiradasAlSur.com, "è in realtà un esperimento di manipolazione globale: [...] è un sofisticato strumento di finanziamento da parte della Central Intelligence Agency, CIA, utilizzato non solo per il reclutamento di agenti e la raccolta di informazioni su tutto il pianeta, ma anche per le operazioni sotto copertura".

A grandi linee Facebook è uno strumento di comunicazione che permette di contattare e archiviare indirizzi e altre informazioni di amici e familiari. Si tratta di una miniera di informazioni sulle amicizie dei suoi utenti, per enti come il Dipartimento per la Sicurezza degli Stati Uniti, e in generale per gli organismi dell'intelligence, dall'era Bush impegnati con pari entusiasmo nei confronti del "nemico" esterno ed interno.

Milioni di utenti offrono informazioni sulla loro identità, fotografie e liste dei loro articoli di consumo preferiti. Un messaggio da un amico li invita a registrarsi e a partecipare a Facebook. I dati personali, che di solito sono catturati da tutti i tipi di truffatori e clonatori di carte di credito, finiscono anche nel disco rigido dei servizi di sicurezza degli Stati Uniti. Il sistema Beacon di Facebook compie un monitoraggio degli utenti e degli associati, compresi quelli che non sono mai stati registrati o che si disabilitano. Facebook è più pratico e veloce di InfraGard (2), ovvero le 23.000 microcomunità o "cellule" di piccoli commercianti-informatori, predisposto dal FBI per conoscere il profilo psico-politico della loro clientela.

Dal dicembre 2006, la CIA utilizza Facebook per reclutare nuovi agenti. Gli altri organismi pubblici per il reclutamento e l'assunzione sono tenuti a sottostare ai regolamenti federali, ma la CIA ha acquisito una libertà senza freni sotto l'amministrazione Bush, anche di torturare senza salvare le apparenze. "Non è necessario alcun permesso per inserirci nella rete sociale", ha detto la CIA.

Capitale a rischio CIA

Un allarme fondato sulla proprietà CIA di Facebook è stato lanciato dal giornalista britannico Tom Hodgkinson, e documentato in questo articolo “With friends like these ...” (Con amici come questi ...) pubblicato sul The Guardian del 14 gennaio 2008 (3). Egli dichiara che, dopo l'11 settembre 2001, è raddoppiato l'entusiasmo per l'alta tecnologia che aveva già catturato la comunità dell’intelligence statunitense quando due anni prima aveva creato il fondo di capitali "In-Q-Tel", per le opportunità di investimenti a rischio nelle alte tecnologie.

Per il giornalista Hodgkinson, i legami di Facebook con la CIA passano attraverso Jim Breyer, uno dei tre principali partner che ha investito nella rete sociale 12,7 milioni di dollari nell’aprile 2005, socio nel fondo di capitali Accel Partners, membro direttivo di giganti come Wal-Mart e Marvel Entertainment ed ex presidente della National Venture Capital Association (NVCA), che si caratterizza nell’investimento sui giovani talenti.

"L'ultimo round di finanziamento per Facebook è stato condotto da una società finanziaria denominata Greylock Venture Capital, che ha immesso 27,5 milioni di dollari", ha scritto Hodgkinson. "Uno dei principali partner della Greylock si chiama Howard Cox, altro ex presidente della NVCA ed anche lui nel consiglio di amministrazione di In-Q-Tel".

"Che cosa è In-Q-Tel?" si chiede Hodgkinson, "Bene, che ci crediate o meno (e verificatelo sul loro sito web) è un fondo di capitali a rischio della CIA". Creato nel 1999, la sua missione è di "identificare e associarsi alle aziende che stanno sviluppando nuove tecnologie per contribuire a fornire soluzioni alla Central Intelligence Agency".

Il sito web di In-Q-Tel (4) raccomandato da Hodgkinson è molto esplicito: "Nel 1998, il direttore della Central Intelligence (DCI) ha individuato la tecnologia come una delle massime priorità strategiche, direttamente collegata al futuro progresso tecnico dell’agenzia, per migliorare le missioni di raccolta e analisi. La direzione del Dipartimento di Scienza e Tecnologia ha ideato un radicale progetto per la creazione di una nuova società che consentirebbe all’agenzia di migliorare l'accesso all'innovazione nel settore privato". Cristallino come l’acqua, ha dichiarato Hodgkinson.

Note e fonti:
1) 2009 Forbes relazione: http://www.forbes.com/lists/2009/10/billionaires-2009-richest-people_The-WorldsBillionaires_CountryOfCitizen_18.html.
2) http://www.infragard.net
3) http://www.guardian.co.uk/technology/2008/jan/14/facebook
4) http://www.iqt.org/about-iqt/history.html

*Ernesto Carmona è giornalista e consulente per la FELAP, (Federazione Latino Americana dei Giornalisti), consulente del Collegio Nazionale di Giornalisti del Cile e socio del Circolo dei Giornalisti di Santiago. 


E NON SOLO :



Un archivio da un miliardo di utenti 1 miliardo di utenti, oltre 1 miliardo di pagine visitate al mese, tra 120 e 130 contatti per utente, 90 azioni mensili per amico, per circa 11.000 azioni realizzate nel proprio gruppo di riferimento. Questi sono i numeri che quotidianamente macina EdgeRank, l’algoritmo di Facebook che determina la visibilità di un “post” sul Wall, assegnando un valore ad ogni interazione tra ricevente e mittente del messaggio sulla base di 3 elementi: affinità, rilevanza, tempo. È EdgeRank che decide cosa vediamo su Facebook (perché vedo sempre i post di Tizio e non quelli di Caio?), ma anche come e con chi comunichiamo. Non è altro che un algoritmo di classificazione di contatti sociali! Facebook è il gestore del più grande archivio del mondo, e comprende circa un settimo della popolazione. Gli utenti forniscono i loro dati spontaneamente, sapendo che è il prezzo da pagare per poter usufruire gratuitamente del social network. I dati sono raccolti durante la navigazione su Facebook, ma anche su tutti i siti che sfoggiano gli onnipresenti bottoni (like, share), ma anche da affiliati, inserzionisti e clienti di Facebook. I dati sono utilizzati per confezionare gli avvisi pubblicitari personalizzati che vediamo ai lati della pagina Facebook. O forse no? Da Facemash a Facebook Facebook nasce nel 2003 quando Mark Zuckerberg frequentava Harvard. All’epoca si chiamava Facemash, e comparava due persone alla volta recuperandone foto e dati dal database delle università (vota la ragazza più carina). Zuckerberg fu accusato di violazione della privacy e dei diritti d’autore, e il sito chiuso. Le accuse furono poi ritirate. Dall’ampliamento di quel progetto nasce poi Facebook, uno strumento sociale esteso prima alle università americane, poi a tutto il mondo. Nel 2004 la società fissa la sua sede a Palo Alto, in California. Già allora il software riceveva forti critiche: Facebook isola la gente al suo posto di lavoro, Facebook incoraggia ad avere molti “amici” privilegiando la quantità alla qualità, Facebook alimenta il nostro narcisismo… ma soprattutto Facebook è lo strumento dei venture capitalist. Come PayPal, non è altro che un esperimento sociale espressione di un libertarismo neoconservatore: su Facebook puoi essere chi vuoi tu, purché accetti di vendere te stesso alle multinazionali. Infatti, il primo investitore di Facebook, con mezzo milione di dollari, è il cofondatore di PayPal, Peter Thiel. E chi è Peter Thiel? Nato a Francoforte, laureato in filosofia a Stanford, membro del consiglio direttivo di Facebook, considerato uno dei gestori di hedge fund più abile al mondo, tramite la sua azienda finanziaria Founders Fund influenza l’intera Silicon Valley. Più di un capitalista intelligente e avido lo si può considerare un attivista neocon. Sostiene che il “multiculturalismo” ha ridotto le libertà degli individui, è fondatore di un giornale di destra, nonché membro di TheVanguard, un gruppo di pressione conservatore che opera sul web in contrapposizione a MoveOn.org, altro gruppo di pressione ma di tendenze liberali. TheVanguard è una comunità online di americani che credono nel libero mercato e lo Stato ridotto ai minimi termini. Il suo scopo è promuovere politiche per rimodellare l’America e il mondo. L’idea di Thiel è che si possono trovare valori nei contatti sociali, e per questo occorre ampliarli andando oltre i confini nazionali. Quindi fonda PayPal e poi investe in Facebook. La domanda è: si possono creare comunità sociali transnazionali? Per altri, invece: si possono fare soldi con l’amicizia? Facebook è l’ideale, sostanzialmente non fa nulla ma si limita a mediare i rapporti sociali. La teoria secondo la quale gli esseri umani tendono a muoversi in gruppo, come greggi di pecore, fa il resto. Internet incarna il sogno di ogni neocon, spezza i confini nazionali consentendo di aggirarne i limiti (e quindi le leggi): paradisi fiscali, globalizzazione, accesso contemporaneamente ai mercati di tutto il mondo, capacità di spostare soldi da una parte all’altra del mondo con un click, impossibilità per i governi di un controllo effettivo sulle aziende transnazionali, e di imporre loro delle restrizioni legali. Nessuna rivoluzione proletaria, nessun assalto alle banche può avere un qualche risultato se i soldi sono tutti alle Cayman! Thiel è anche membro del gruppo Bilderberg, dove inoltre troviamo il fondatore di LinkedIn, Reid Hoffman, ed Erich Schmidt, presidente del consiglio di sicurezza di Google, Bill Gates, presidente di Microsoft, e Jeff Bezos, fondatore e Ceo di Amazon, e Chris Hughes, altro fondatore di Facebook. Nel Bilderberg, una congregazione che annovera rappresentanti del mondo della finanza, della politica e dei media, che si riunisce una volta l’anno per discutere dei problemi del mondo, siede anche Alexander Karp, Ceo di Palantir Technologies, azienda della quale Thiel è il principale investitore nonché direttore. Il braccio della CIA Scorrendo l’elenco degli altri investitori di Facebook notiamo la Greylock Partners. Uno dei soci della Greylock è Howard Cox, il quale lavorava nel Ministero della Difesa Usa e per un certo periodo è stato nel Business Board del Pentagono. Inoltre è membro del consiglio della In-Q-Tel. La In-Q-Tel, un nome decisamente sconosciuto ai più, è il braccio imprenditoriale della CIA. Fondata dall’Agenzia americana nel 1999 per evitare la burocrazia degli appalti pubblici, agisce sotto forma di suo investitore, così i servizi segreti possono gestire l’outsourcing per la ricerca. La In-Q-Tel consente alla CIA di tenersi al passo con i tempi dal punto di vista tecnologico, senza dover assumere uno stuolo di scienziati. Molti di noi usano tutti i giorni uno dei prodotti nei quali ha investito la In-Q-Tel, cioè il software della Keyhole Inc., e che noi oggi conosciamo come Google Earth. Google acquisì la Keyhole nel 2004, e per un certo periodo la CIA, tramite In-Q-Tel, ha posseduto azioni di Google per un totale di 2,2 miliardi di dollari. In una brochure della In-Q-Tel leggiamo: “governments are increasingly finding that monitoring social media is an essential component in keeping track of erupting political movements, crises, epidemics, and disasters, not to mention general global trends”. Si tratta di tenere d’occhio le idee che sono più condivise in rete per anticipare il sorgere di movimenti politici. Bisogna trovarsi pronti prima di un altro Occupy! È l’ennesima teoria della cospirazione mondiale? Nulla di tutto ciò. Non diremo che Facebook fu un’operazione della Cia né che Zuckerberg è un agente dell’agenzia americana. In rete ci sono numerosi articoli che mettono alla berlina questa tesi, ma il punto è che ridendone non si coglie il nucleo del problema. Gli intrecci tra le società che operano in rete e che di fatto la controllano, la gestiscono, la plasmano, sono molto più forti di quanto si creda: sempre le stesse società e gli stessi uomini! E mentre l’Operazione Overlord diventa satira online, viene messa da parte la domanda fondamentale: che fine fanno i dati degli utenti? I dati sono tutti lì, li immettiamo noi, spesso inconsapevolmente, vengono raccolti e possono essere facilmente girati anche ai governi. In molti casi già avviene. Però sono tanti, troppi, e difficili da coordinare. Ciò che realmente manca è lo strumento con cui relazionare l’enorme quantità di informazioni e trarne qualche utilità, oltre che a fini di pubblicità personalizzata. O forse no? Fallen Hero Febbraio 2011. L’agente speciale dell’ufficio immigrazione (ICE) Jaime Zapata viene ucciso dai membri di un cartello della droga. Nelle ore successive gli alti funzionari dell’amministrazione Usa vanno in fibrillazione. Sono letteralmente incazzati per l’omicidio deliberato di un agente federale; e vogliono vendetta! I federali avevano già una enorme quantità di informazioni sui cartelli della droga, i loro uomini, i meccanismi di finanziamento e le rotte di contrabbando: dossier, relazioni, video di sorveglianza, intercettazioni, footage da droni. Informazioni non coordinate e quindi scarsamente utili. Qualcuno suggerisce di rivolgersi ad una software house della California. I risultati sono sorprendenti, il software consente di individuare tutte le connessioni possibili tra gli individui e le varie organizzazioni. Un lavoro di indagine minuzioso che avrebbe richiesto mesi, forse anni, se eseguito nella maniera tradizionale. L’Operazione Fallen Hero porta all’arresto di 676 persone, compreso i sospettati dell’omicidio di Zapata, e al sequestro di 500 chili di cocaina e una notevole quantità di armi. Nel caso citato e in altri simili il comune denominatore è il software. Il suo utilizzo in genere rimane segreto, ma in qualche raro caso le informazioni si fanno strada verso il pubblico. Così sappiamo che nel 2010 è stato usato in un’operazione di spionaggio in Canada, per coordinare gli aiuti durante l’uragano Sandy, per svelare abusi sui minori, ed anche in casi di rapimento. In Afghanistan gli USA lo utilizzano per le operazioni speciali, e ha contribuito alla cattura di Bin Laden. Quel software è prodotto da Palantir Technologies. La pietra veggente La sede di Palantir Technologies, a 10 minuti da quella di Facebook, si trova a Palo Alto, ed è conosciuta come The Shire (La contea), l’ufficio in Virginia è Rivendell, la casa degli elfi. Il Palantir è la pietra veggente de “Il signore degli anelli”, una sfera dall’apparenza di cristallo che permette a chi la osserva di comunicare a grande distanza. Il suo nome vuol dire: coloro che sorvegliano da lontano. Tutti riferimenti alla mitologia di Tolkien. Il software Palantir risolve il problema fondamentale dell’intelligence. CIA e FBI possono avere diversi database con peculiarità proprie: dati finanziari, campioni di DNA e di suoni, video, mappe, intercettazioni. Poi ci sono i tantissimi dati che vengono raccolti da internet. Per rendere coerenti questa enorme quantità di informazioni occorrerebbero anni. Il software Palantir, invece, accedendo a tutti i database, riesce in poco tempo ad estrarre tutti i dati che hanno una correlazione tra di loro. La tecnologia Palantir trasforma discariche di dati in miniere d’oro! Palantir Palantir in realtà nasce quale strumento antifrode. Poiché PayPal attirava molti criminali che utilizzavano il servizio per riciclaggio di denaro o frodi, Peter Thiel, il cofondatore di PayPal, investì nella realizzazione di un software in grado di verificare le transazioni sospette. Dopo l’acquisizione di PayPal da parte di Ebay, Thiel si portò dietro quel software, e costituì la società Palantir nel 2004. Palantir Technologies nasce con l’apporto di importanti esperti di sicurezza nazionale, come John Poindexter, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Ronald Reagan, il quale suggerì un approccio diverso: invece di estrarre dati dai soli database governativi non era meglio attingere anche a quelli privati? Transazioni, carte di credito, mail, tabulati telefonici… una enorme quantità di dati presenti in rete che aspettano solo di essere raccolti! La mission di Palantir, spiega il Ceo Alexander Karp, è quella di lavorare insieme per creare un mondo migliore: il nostro lavoro salva delle vite, consente la cattura dei criminali, protegge i diritti dei cittadini. Il diritto alla libertà di parola e il diritto alla privacy sono fondamentali per una democrazia viva. Fin dalla sua nascita, Palantir Technologies ha sostenuto questi ideali e ha dimostrato un impegno per la compilazione del software che protegge la privacy e le libertà civili. Queste le “belle” parole del Ceo di Palantir, peccato che fossero in calce alle scuse per aver avuto un ruolo nel progetto di attacco a Wikileaks. Un Pdf rubato e reso pubblico da Wikileaks mostra appunto il logo di Palantir su un progetto nato da una proposta di Bank of America, e Palantir più che un difensore dei diritti umani ne esce come una sorta di mercenario digitale. Come il Palantir di Tolkien può servire sia per il bene che il male, molti dicono lo stesso del software di data mining della società californiana: tutto dipende da chi tiene il Palantir, tutto dipende da chi usa il software di sorveglianza digitale. Karp sostiene che Palantir ha sviluppato anche un sofisticato sistema di protezione della privacy, per garantire un accesso controllato ai dati. E ha anche creato un Consiglio per la privacy e le libertà civili all’interno dell’azienda. Ma è difficile credere che gli enti governativi, come la NSA, siano soggetti a limitazioni del genere. In realtà il sistema è strettamente legato al nulla osta di sicurezza governativo, solo chi è autorizzato può leggere determinati dati. Ma al vertice c’è sempre chi può leggere tutto. Il punto è che Palantir nasce con uno scopo preciso, fornire agli Stati Uniti il più sofisticato strumento di controllo per impedire un nuovo 9/11. Ed è quello che sta facendo al meglio, analizzando database governativi e privati. Compreso quelli della multinazionali del web? Attualmente Palantir ha come clienti: il dipartimento della Difesa Usa, CIA, FBI, esercito, Marines, Aeronautica, dipartimenti di Polizia di New York e Los Angeles, e un numero crescente di istituzioni finanziarie. Dopo Washington e Wall Street, Palantir si sta espandendo nella sanità, nelle assicurazioni e nel biotech. In ogni settore sembra esserci un possibile impiego del software Palantir. E adesso lo si utilizza anche al di fuori degli Usa. Londra, 2012. Il premier britannico Cameron annuncia i giochi olimpici con queste parole: “the eyes of the world will be on us”, gli occhi del mondo sono su di noi. Uno di quegli occhi era Palantir!

Ricorda di citare la fonte: http://www.valigiablu.it/facebook-connection-il-braccio-della-cia-e-la-sorveglianza-digitale/
Licenza cc-by-nc-nd valigiablu.it

 
Facebook Connection: il braccio della CIA e la sorveglianza digitale

Un archivio da un miliardo di utenti: che fine fanno i nostri dati?




 
Un archivio da un miliardo di utenti

1 miliardo di utenti, oltre 1 miliardo di pagine visitate al mese, tra 120 e 130 contatti per utente, 90 azioni mensili per amico, per circa 11.000 azioni realizzate nel proprio gruppo di riferimento. Questi sono i numeri che quotidianamente macina EdgeRank, l’algoritmo di Facebook che determina la visibilità di un “post” sul Wall, assegnando un valore ad ogni interazione tra ricevente e mittente del messaggio sulla base di 3 elementi: affinità, rilevanza, tempo. È EdgeRank che decide cosa vediamo su Facebook (perché vedo sempre i post di Tizio e non quelli di Caio?), ma anche come e con chi comunichiamo. Non è altro che un algoritmo di classificazione di contatti sociali!
Facebook è il gestore del più grande archivio del mondo, e comprende circa un settimo della popolazione. Gli utenti forniscono i loro dati spontaneamente, sapendo che è il prezzo da pagare per poter usufruire gratuitamente del social network.
I dati sono raccolti durante la navigazione su Facebook, ma anche su tutti i siti che sfoggiano gli onnipresenti bottoni (like, share), ma anche da affiliati, inserzionisti e clienti di Facebook.
I dati sono utilizzati per confezionare gli avvisi pubblicitari personalizzati che vediamo ai lati della pagina Facebook.
O forse no?

Da Facemash a Facebook


Facebook nasce nel 2003 quando Mark Zuckerberg frequentava Harvard. All’epoca si chiamava Facemash, e comparava due persone alla volta recuperandone foto e dati dal database delle università (vota la ragazza più carina). Zuckerberg fu accusato di violazione della privacy e dei diritti d’autore, e il sito chiuso. Le accuse furono poi ritirate.
Dall’ampliamento di quel progetto nasce poi Facebook, uno strumento sociale esteso prima alle università americane, poi a tutto il mondo.
Nel 2004 la società fissa la sua sede a Palo Alto, in California. Già allora il software riceveva forti critiche: Facebook isola la gente al suo posto di lavoro, Facebook incoraggia ad avere molti “amici” privilegiando la quantità alla qualità, Facebook alimenta il nostro narcisismo… ma soprattutto Facebook è lo strumento dei venture capitalist. Come PayPal, non è altro che un esperimento sociale espressione di un libertarismo neoconservatore: su Facebook puoi essere chi vuoi tu, purché accetti di vendere te stesso alle multinazionali.
Infatti, il primo investitore di Facebook, con mezzo milione di dollari, è il cofondatore di PayPal, Peter Thiel. E chi è Peter Thiel?
Nato a Francoforte, laureato in filosofia a Stanford, membro del consiglio direttivo di Facebook, considerato uno dei gestori di hedge fund più abile al mondo, tramite la sua azienda finanziaria Founders Fund influenza l’intera Silicon Valley. Più di un capitalista intelligente e avido lo si può considerare un attivista neocon. Sostiene che il “multiculturalismo” ha ridotto le libertà degli individui, è fondatore di un giornale di destra, nonché membro di TheVanguard, un gruppo di pressione conservatore che opera sul web in contrapposizione a MoveOn.org, altro gruppo di pressione ma di tendenze liberali. TheVanguard è una comunità online di americani che credono nel libero mercato e lo Stato ridotto ai minimi termini. Il suo scopo è promuovere politiche per rimodellare l’America e il mondo.
L’idea di Thiel è che si possono trovare valori nei contatti sociali, e per questo occorre ampliarli andando oltre i confini nazionali. Quindi fonda PayPal e poi investe in Facebook. La domanda è: si possono creare comunità sociali transnazionali? Per altri, invece: si possono fare soldi con l’amicizia?
Facebook è l’ideale, sostanzialmente non fa nulla ma si limita a mediare i rapporti sociali. La teoria secondo la quale gli esseri umani tendono a muoversi in gruppo, come greggi di pecore, fa il resto.
Internet incarna il sogno di ogni neocon, spezza i confini nazionali consentendo di aggirarne i limiti (e quindi le leggi): paradisi fiscali, globalizzazione, accesso contemporaneamente ai mercati di tutto il mondo, capacità di spostare soldi da una parte all’altra del mondo con un click, impossibilità per i governi di un controllo effettivo sulle aziende transnazionali, e di imporre loro delle restrizioni legali.
Nessuna rivoluzione proletaria, nessun assalto alle banche può avere un qualche risultato se i soldi sono tutti alle Cayman!
Thiel è anche membro del gruppo Bilderberg, dove inoltre troviamo il fondatore di LinkedIn, Reid Hoffman, ed Erich Schmidt, presidente del consiglio di sicurezza di Google, Bill Gates, presidente di Microsoft, e Jeff Bezos, fondatore e Ceo di Amazon, e Chris Hughes, altro fondatore di Facebook.
Nel Bilderberg, una congregazione che annovera rappresentanti del mondo della finanza, della politica e dei media, che si riunisce una volta l’anno per discutere dei problemi del mondo, siede anche Alexander Karp, Ceo di Palantir Technologies, azienda della quale Thiel è il principale investitore nonché direttore.

Il braccio della CIA

Scorrendo l’elenco degli altri investitori di Facebook notiamo la Greylock Partners. Uno dei soci della Greylock è Howard Cox, il quale lavorava nel Ministero della Difesa Usa e per un certo periodo è stato nel Business Board del Pentagono. Inoltre è membro del consiglio della In-Q-Tel.
La In-Q-Tel, un nome decisamente sconosciuto ai più, è il braccio imprenditoriale della CIA. Fondata dall’Agenzia americana nel 1999 per evitare la burocrazia degli appalti pubblici, agisce sotto forma di suo investitore, così i servizi segreti possono gestire l’outsourcing per la ricerca.
La In-Q-Tel consente alla CIA di tenersi al passo con i tempi dal punto di vista tecnologico, senza dover assumere uno stuolo di scienziati. Molti di noi usano tutti i giorni uno dei prodotti nei quali ha investito la In-Q-Tel, cioè il software della Keyhole Inc., e che noi oggi conosciamo come Google Earth. Google acquisì la Keyhole nel 2004, e per un certo periodo la CIA, tramite In-Q-Tel, ha posseduto azioni di Google per un totale di 2,2 miliardi di dollari.
In una brochure della In-Q-Tel leggiamo: “governments are increasingly finding that monitoring social media is an essential component in keeping track of erupting political movements, crises, epidemics, and disasters, not to mention general global trends”. Si tratta di tenere d’occhio le idee che sono più condivise in rete per anticipare il sorgere di movimenti politici. Bisogna trovarsi pronti prima di un altro Occupy!
È l’ennesima teoria della cospirazione mondiale? Nulla di tutto ciò. Non diremo che Facebook fu un’operazione della Cia né che Zuckerberg è un agente dell’agenzia americana. In rete ci sono numerosi articoli che mettono alla berlina questa tesi, ma il punto è che ridendone non si coglie il nucleo del problema. Gli intrecci tra le società che operano in rete e che di fatto la controllano, la gestiscono, la plasmano, sono molto più forti di quanto si creda: sempre le stesse società e gli stessi uomini! E mentre l’Operazione Overlord diventa satira online, viene messa da parte la domanda fondamentale: che fine fanno i dati degli utenti?
I dati sono tutti lì, li immettiamo noi, spesso inconsapevolmente, vengono raccolti e possono essere facilmente girati anche ai governi. In molti casi già avviene. Però sono tanti, troppi, e difficili da coordinare. Ciò che realmente manca è lo strumento con cui relazionare l’enorme quantità di informazioni e trarne qualche utilità, oltre che a fini di pubblicità personalizzata.
O forse no?

Fallen Hero

Febbraio 2011. L’agente speciale dell’ufficio immigrazione (ICE) Jaime Zapata viene ucciso dai membri di un cartello della droga. Nelle ore successive gli alti funzionari dell’amministrazione Usa vanno in fibrillazione. Sono letteralmente incazzati per l’omicidio deliberato di un agente federale; e vogliono vendetta!
I federali avevano già una enorme quantità di informazioni sui cartelli della droga, i loro uomini, i meccanismi di finanziamento e le rotte di contrabbando: dossier, relazioni, video di sorveglianza, intercettazioni, footage da droni. Informazioni non coordinate e quindi scarsamente utili. Qualcuno suggerisce di rivolgersi ad una software house della California. I risultati sono sorprendenti, il software consente di individuare tutte le connessioni possibili tra gli individui e le varie organizzazioni. Un lavoro di indagine minuzioso che avrebbe richiesto mesi, forse anni, se eseguito nella maniera tradizionale.
L’Operazione Fallen Hero porta all’arresto di 676 persone, compreso i sospettati dell’omicidio di Zapata, e al sequestro di 500 chili di cocaina e una notevole quantità di armi.
Nel caso citato e in altri simili il comune denominatore è il software. Il suo utilizzo in genere rimane segreto, ma in qualche raro caso le informazioni si fanno strada verso il pubblico. Così sappiamo che nel 2010 è stato usato in un’operazione di spionaggio in Canada, per coordinare gli aiuti durante l’uragano Sandy, per svelare abusi sui minori, ed anche in casi di rapimento. In Afghanistan gli USA lo utilizzano per le operazioni speciali, e ha contribuito alla cattura di Bin Laden.
Quel software è prodotto da Palantir Technologies.

La pietra veggente

La sede di Palantir Technologies, a 10 minuti da quella di Facebook, si trova a Palo Alto, ed è conosciuta come The Shire (La contea), l’ufficio in Virginia è Rivendell, la casa degli elfi. Il Palantir è la pietra veggente de “Il signore degli anelli”, una sfera dall’apparenza di cristallo che permette a chi la osserva di comunicare a grande distanza. Il suo nome vuol dire: coloro che sorvegliano da lontano. Tutti riferimenti alla mitologia di Tolkien.
Il software Palantir risolve il problema fondamentale dell’intelligence. CIA e FBI possono avere diversi database con peculiarità proprie: dati finanziari, campioni di DNA e di suoni, video, mappe, intercettazioni. Poi ci sono i tantissimi dati che vengono raccolti da internet. Per rendere coerenti questa enorme quantità di informazioni occorrerebbero anni. Il software Palantir, invece, accedendo a tutti i database, riesce in poco tempo ad estrarre tutti i dati che hanno una correlazione tra di loro. La tecnologia Palantir trasforma discariche di dati in miniere d’oro!

Palantir

Palantir in realtà nasce quale strumento antifrode. Poiché PayPal attirava molti criminali che utilizzavano il servizio per riciclaggio di denaro o frodi, Peter Thiel, il cofondatore di PayPal, investì nella realizzazione di un software in grado di verificare le transazioni sospette.
Dopo l’acquisizione di PayPal da parte di Ebay, Thiel si portò dietro quel software, e costituì la società Palantir nel 2004.
Palantir Technologies nasce con l’apporto di importanti esperti di sicurezza nazionale, come John Poindexter, ex consigliere per la sicurezza nazionale di Ronald Reagan, il quale suggerì un approccio diverso: invece di estrarre dati dai soli database governativi non era meglio attingere anche a quelli privati? Transazioni, carte di credito, mail, tabulati telefonici… una enorme quantità di dati presenti in rete che aspettano solo di essere raccolti!
La mission di Palantir, spiega il Ceo Alexander Karp, è quella di lavorare insieme per creare un mondo migliore: il nostro lavoro salva delle vite, consente la cattura dei criminali, protegge i diritti dei cittadini.
Il diritto alla libertà di parola e il diritto alla privacy sono fondamentali per una democrazia viva. Fin dalla sua nascita, Palantir Technologies ha sostenuto questi ideali e ha dimostrato un impegno per la compilazione del software che protegge la privacy e le libertà civili.
Queste le “belle” parole del Ceo di Palantir, peccato che fossero in calce alle scuse per aver avuto un ruolo nel progetto di attacco a Wikileaks. Un Pdf rubato e reso pubblico da Wikileaks mostra appunto il logo di Palantir su un progetto nato da una proposta di Bank of America, e Palantir più che un difensore dei diritti umani ne esce come una sorta di mercenario digitale.
Come il Palantir di Tolkien può servire sia per il bene che il male, molti dicono lo stesso del software di data mining della società californiana: tutto dipende da chi tiene il Palantir, tutto dipende da chi usa il software di sorveglianza digitale.
Karp sostiene che Palantir ha sviluppato anche un sofisticato sistema di protezione della privacy, per garantire un accesso controllato ai dati. E ha anche creato un Consiglio per la privacy e le libertà civili all’interno dell’azienda. Ma è difficile credere che gli enti governativi, come la NSA, siano soggetti a limitazioni del genere. In realtà il sistema è strettamente legato al nulla osta di sicurezza governativo, solo chi è autorizzato può leggere determinati dati. Ma al vertice c’è sempre chi può leggere tutto.
Il punto è che Palantir nasce con uno scopo preciso, fornire agli Stati Uniti il più sofisticato strumento di controllo per impedire un nuovo 9/11. Ed è quello che sta facendo al meglio, analizzando database governativi e privati. Compreso quelli della multinazionali del web?
Attualmente Palantir ha come clienti: il dipartimento della Difesa Usa, CIA, FBI, esercito, Marines, Aeronautica, dipartimenti di Polizia di New York e Los Angeles, e un numero crescente di istituzioni finanziarie. Dopo Washington e Wall Street, Palantir si sta espandendo nella sanità, nelle assicurazioni e nel biotech. In ogni settore sembra esserci un possibile impiego del software Palantir. E adesso lo si utilizza anche al di fuori degli Usa.

Londra, 2012. Il premier britannico Cameron annuncia i giochi olimpici con queste parole: “the eyes of the world will be on us”, "gli occhi del mondo sono su di noi".
Uno di quegli occhi era Palantir!

LASCIO A VOI TUTTI SVILUPPARE,USANDO LA MENTE,I COMMENTI CHE POTRESTE FARE E CHI CONTROLLA CHI ?

E' STATO RICEVUTO UN "RAGAZZINO"CON LE IDEE GENIALI, MA SOVVENZIONATO DALLA "CIA-USA" E DAI "SERVIZI...........USA"!!  

QUINDI, CARI SIGNORI, CHE USATE "FACEBOOK",SAPPIATE CHE SIETE SEMPRE CONTROLLATI.

I SIG.RI USA, SI FANNO DELLE BELLE, GROSSE,RISATE,QUANDO SIETE IN CHAT "PARTICOLARI", AHAHAHAHAHAH  (non esiste ancora, on line, un programma che determini, chi vi spia,seppure "qualcuno"per far soldi vi dica, "io lo ho",ma a quanto mi si dice, anche questo muro, presto, verrà sfondato......e proprio negli USA!!!!!) 

A PRESTO UN'ALTRO POST.....SE NON VENGO "BLINDATO" PRIMA.


venerdì 24 ottobre 2014

PERCHE' L'INDONESIA OGGI ? ANALISI ECONOMICA DEL PAESE


AGGIORNAMENTO MARZO 2013

sourge : Massimo Di Nola

Un Paese che cresce

Nell’ultimo decennio l’Indonesia ha mantenuto un tasso di crescita del PIL pari (in media) al 5,2% annuo. Tra i 18 maggiori Paesi del mondo, solo la Cina e l’India hanno fatto meglio. Se, come tutto fa pensare, questo trend continuerà anche nei prossimi anni, nel 2030 l’Indonesia sarà la settima potenza mondiale davanti anche a Paesi come la Germania o il Regno Unito, superata solo da Cina, Usa, India, Giappone, Brasile e Russia. Non solo, ma l’aspetto importante è che questa crescita non è dovuto solo all’aumento della popolazione. Anzi, il 60% è imputabile a una crescita di produttività. Che ha avuto un andamento particolarmente rilevante in settori diversi come la produzione dei mezzi di trasporto (moto e più recentemente anche auto) ma anche le telecomunicazioni, la logistica e il commercio.
I motori dell’ economia
La crescita del Paese è trainata dai consumi. Si tratta di un importante punto di forza in quanto riduce la dipendenza del Paese dall’andamento della congiuntura mondiale. E infatti la crisi del 2008 non ha inciso sul ritmo di crescita del Paese. Anche nei settori in cui l’Indonesia era (e in parte rimane) una piattaforma di produzione a basso costo (calzature, abbigliamento) ormai il mercato interno è un fattore trainante; a ciò si aggiunge l’immensa dotazione di materie prime e risorse agricole e forestali. L’Indonesia è il secondo esportatore mondiale di carbone dopo l’Australia, dispone di riserve accertate di petrolio per 4 miliardi di barili in aggiunta a 3 miliardi di m3 di gas naturale, si colloca nei primi tre posti delle classifiche mondiali per alluminio (bauxite), nickel e stagno, è il primo esportatore mondiale di oli vegetali (palma) e il secondo di cacao e gomma vegetale.
Industria
E’ un’area in cui c’è moltissimo da fare. Ci sono settori in cui l’Indonesia è un gigante mondiale. Ad esempio è un gigante nell’industria delle due ruote: secondo produttore di moto con 8,2 milioni di pezzi prodotti ogni anno. E’ altamente competitiva nel settore tessile (soprattutto filiera sintetica) e delle le calzature. Il Paese inoltre è impegnato ad allungare la catena del valore delle risorse minerarie e agricole di cui dispone. I programmi avviati riguardano l’intera filiera agroalimentare, la petrolchimica e la metallurgia. Si aggiunge l’indotto industriale del boom delle costruzioni in atto in tutto il Paese con importanti ricadute nel settore dei materiali e componenti per l’edilizia.
Competitività
Nella classifica del World Economic Forum (Banca Mondiale) l’Indonesia è “salita” dall’89esimo al 25esimo posto. Ormai supera Paesi come Brasile, India, Thailandia, Malaysia. L’aumento della produttività del lavoro ha contribuito per oltre il 60% alla crescita nel corso degli ultimi 20 anni. La forza lavoro del Paese ammonta a 55 milioni di persone. E’ mediamente più giovane (28 anni) rispetto alla Cina (35 anni), i livelli di turnover sono decisamente più bassi e anche il costo è nettamente inferiore.
Conti dello Stato
Sotto questo profilo Jakarta è in una posizione invidiabile. Il debito copre solo il 25% del Pil. Dieci anni fa la quota era l’80%. C’è stata quindi un’operazione di alleggerimento formidabile che ha consentito alle Agenzie internazionali di elevare il rating creditizio del Paese a Investment grade. Particolarmente solida anche la posizione esterna del Paese. Le riserve valutarie ammontano a 110 miliardi di dollari e l’attivo della bilancia commerciale supera i 26 miliardi. Sono aspetti importanti perché lasciano aperto tutto lo spazio necessario per fare fronte agli ambiziosi programmi di investimento nelle infrastrutture, servizi sociali (scuola, sanità) definiti dal Governo di Giakarta nei prossimi 12 anni con un esborso previsto di 400 miliardi di dollari . E nello sviluppo del grande potenziale agricolo e minerario del Paese.
Indonesia e Asia
L’Indonesia cresce con i mercati del futuro. Il 54% dell’interscambio del Paese avviene con i Paesi dell’area Asiatica. Che garantiscono un solido mercato per l’ingente patrimonio di materie prime del Paese. Già oggi l’export indonesiano di oli vegetali verso Cina e India supera gli 8 miliardi di dollari e quello di carbone i sei miliardi. Grazie alle dimensioni del suo mercato e alle risorse di cui dispone, l’Indonesia è anche destinata ad assumere una posizione di leadership all’interno dell’area di libero scambio dei Paesi dell’Asia Sudorientale (ASEAN) con oltre 600 milioni di consumatori che include Paesi come Thailandia, Malaysia, Vietnam, Filippine ecc.

Indonesia 2020: la geografia della crescita


L’Indonesia è un arcipelago composto da diverse grandi isole e migliaia di isole minori (in tutto sono oltre 17mila), con Java in posizione nettamente dominante sotto il profilo economico e sociale. Seguono, per rilevanza e potenziale economico, Sumatra, Kalimantan (Borneo sudoccidentale), Nuova Guinea (orientale) e Sulawesi. Sono tutte dotate di grandi risorse naturali che risultano però difficilmente accessibili (e quindi non sfruttate) per la mancanza di infrastrutture adeguate. In questo contesto la sfida che il Paese sta affrontando è di mettersi nelle condizioni di trarre pienamente profitto dall’immenso patrimonio di risorse di cui dispone. Il tutto condensato all’interno di un grande piano pluriennale di sviluppo denominato MP3I (Masterplan for Acceleration and Expansion of Indonesian Economic Development) che indica un impressionante elenco di infrastrutture e attività produttive collegate tra loro: porti, strade, ferrovie, centrali elettriche, reti di telecomunicazione ma anche attività estrattive, impianti di trasformazione industriale e agricola, reti di servizi. L’obiettivo indicato infatti è quello di una maggiore “connettività” tra le diverse aree geografiche e attività del Paese. L’investimento complessivo previsto supera i 400 miliardi di dollari.
Java
A Java è concentrata la maggior parte dell’attività manifatturiera e di servizi del Paese. L’Isola però è visibilmente sovrappopolata: su un territorio pari a meno della metà dell’Italia (136 mila chilometri quadrati) è insediata una popolazione di 135 milioni di abitanti. Le ambizioni del Governo sono elevate: l’obiettivo è di seguire l’esempio di altre Nazioni asiatiche come la Malaysia o Singapore puntando sulla crescita di produzioni a maggiore valore aggiunto, servizi evoluti e attività connesse a quella che oggi viene definita come “economia della conoscenza”. Resta però molto da fare. Non solo permangono forti disparità tra le diverse Province dell’Isola ma le infrastrutture di collegamento interne in particolare lungo la costa settentrionale, sono insufficienti. Mentre quelle interne alle maggiori aree metropolitane sono inadeguate rispetto al carico demografico e di mobilità da cui sono gravate. Sono anche sottoposte a periodici allagamenti provocati dalle piogge. Il problema investe in particolare, la cosiddetta Grande Jakarta (Jabodetabek) che copre tre Province con una popolazione valutata in 12 milioni di persone e un reddito medio (oltre 5mila dollari annui) nettamente superiore a quello del resto del Paese. Il Piano pluriennale prevede, per l’intera area, la realizzazione di un sistema di metropolitane e treni suburbani, la costruzione di un nuovo porto e di strade a scorrimento veloce con diversi tunnel e viadotti, il potenziamento del sistema di approvvigionamento idrico e delle reti di depurazione e smaltimento dei residui urbani, l’arginamento dei fiumi che attraversano l’area e la costruzione o ampliamento di diversi poli logistico industriali, per un investimento totale nell’ordine dei 135 miliardi di dollari. In parallelo dovrebbe procedere il potenziamento della rete ferroviaria e stradale esistente.
Sumatra
La seconda Isola più popolata dell’Indonesia è considerata come uno dei serbatoi del Paese più ricchi di risorse naturali con particolare riguardo alle piantagioni di olio di palma (70% della produzione indonesiana) e cacao e alle miniere di carbone. Le sfide da affrontare sono: aumento di produttività, miglioramento delle infrastrutture di trasporto e stoccaggio, aumento delle rese nei possedimenti gestiti da piccoli proprietari. Si aggiunge la possibilità di un forte sviluppo dell’attività a valle. Per l’olio di palma sono: raffinazione, fabbricazione di detergenti, altri prodotti oleochimici e biocarburanti. Nel caso della gomma naturale che viene attualmente esportata in forma grezza per l’85% della produzione, esistono ampi spazi per allungare la catena del valore: produzione di lattice concentrato, fabbricazione di pneumatici e altri prodotti, dai guanti ai materassi.
A Sud di Sumatra sono localizzate riserve carbonifere valutate in 52 miliardi di tonnellate. Ma la produzione, ammonta solo a 20 milioni di tonnellate anno. Il dato è imputabile sia al minor rendimento calorico rispetto al carbone del Borneo, sia alla mancanza di adeguate infrastrutture di trasporto. Ma un possibile e importante sbocco viene individuato in un maggiore utilizzo in loco per la produzione di energia. E questo è anche uno di capitoli più rilevanti, in termini di investimenti previsti (quasi 15 miliardi di dollari). Si aggiungono l’ampliamento e la connessione delle reti stradali e ferroviarie interne all’isola con investimenti previsti per 17 miliardi di dollari. In fase di studio avanzato anche un’opera particolarmente ambiziosa che prevede un collegamento via terra (autostrada e ferrovia) con Giava. Sul piano industriale il programma prevede lo sviluppo dell’attività siderurgica a valle dei giacimenti di ferro localizzati nell’Isola, a Cilegon (5,7 miliardi di dollari). In particolare Posco (Corea del Sud) in joint venture con gruppo statale indonesiano Krakatau Steel ha avviato la costruzione, per fasi successive di un polo siderurgico che avrà a regime una capacità annua pari a 9 milioni di tonnellate per un investimento superiore ai 6 miliardi di dollari. Nella stessa località dovrebbe sorgere anche un altro gruppo locale con un impianto da 500mila tonnellate annue per la produzione di billette. Rientra infine in un capitolo separato lo sviluppo del megagiacimento di gas naturale di Natuna al largo di Sumatra (Isole Riau) con riserve pari a 6,3 miliardi di m3 di gas di cui solo una parte (circa 1,3 miliardi) attualmente estraibili in quanto la parte restante presenta una eccessiva concentrazione di anidride carbonica. Il giacimento contiene anche 222 milioni di tonnellate di petrolio.
Kalimantan (Borneo)
All’Indonesia appartiene la maggior parte dell’Isola del Borneo, chiamata Kalimantan. E’ il territorio più ricco di risorse minerarie e naturali del Paese. In particolare il 50% del Pil di Kalimantan deriva dall’estrazione di petrolio e gas naturale (esportato sotto forma di gnl) per quantitativi attorno agli 800mila barili al giorno. E’ però un dato in declino. Uno degli obiettivi quindi, è di riportare la produzione al di sopra del milione di barili con il rilascio di nuove licenze per l’esplorazione di giacimenti in acque profonde e la valorizzazione delle importanti riserve di bed coal methane, cioè il gas naturale ‘intrappolato’ in scisti carboniferi. In entrambi questi settori e’ attiva ENI. Nel Kalimantan è localizzato anche il 50% delle riserve carbonifere del Paese ed è carbone ad alto tenore calorico. Nel settore sono presenti i maggiori operatori australiani e indiani del settore accanto ai gruppi locali e alla BP. E’ da qui che ENEL si approvvigiona del 40% del suo fabbisogno complessivo. In questo caso la sfida è rappresentata dalla costruzione di nuove infrastrutture, in particolare ferrovie, per consentire lo sfruttamento dei grandi giacimenti localizzati nell’interno. Una volta realizzati, i progetti individuati (per un valore che supera i 18 miliardi di dollari) consentirebbero di moltiplicare di sei volte la produzione attuale che ammonta a 325 milioni di tonnellate di cui 265 milioni esportati. Un’altra risorsa strategica di Kalimantan sono i giacimenti di minerali di ferro che coprono l’84% delle riserve del Paese. Il Piano prevede lo sviluppo dell’attività di prima trasformazione del minerale (pellet e ferro pre-ridotto) e la costruzione di nuove acciaierie a ciclo integrato con investimenti pari a 3,7 miliardi di dollari. Di grande rilevanza anche le riserve e l’estrazione di bauxite, il minerale di base per la produzione di alluminio. Gli interventi programmati, sono mirati a sviluppare l’intero settore ‘downstream (produzione di allumina, alluminio primario e semilavorati) con investimenti previsti pari a 13 miliardi di dollari. Da rilevare il forte interesse per il settore espresso da investitori indiani e dei Paesi del Golfo.
Nel settore dell’olio di palma la situazione è analoga a quella di Sumatra con la differenza che i recuperi di produttività possibili con un miglioramento delle tecniche colturali e delle infrastrutture di trasporto del prodotto, sono ancora superiori (attorno al 47%). Infine le foreste: le aree coinvolte ammontano a 42 milioni di ettari di cui solo 15 milioni sono sfruttate come foreste coltivate. Anche questo settore, monopolizzato, sotto il profilo commerciale da un numero limitato di operatori, è aperto ad ampi spazi di razionalizzazione sia sotto il profilo delle politiche forestali, che degli interventi infrastrutturali per il trasporto dei materiali. Kalimantan infatti ancora più di Sumatra, per la sua stessa configurazione geografica ha bisogno di nuove strade e di ferrovie e infatti gli investimenti previsti in questi due settori sono considerevoli: ammontano complessivamente a quasi 6 miliardi di dollari.
Sulawesi (Celebes)
Conosciuta anche come Celebes, l’Isola, con una superficie di 174mila m2 e 15 milioni di abitanti è il maggior produttore di mais, cacao (63% del totale nazionale) e riso. Su queste basi il programma del Governo di Jakarta è di trasformare l’Isola in uno dei maggiori ‘granai’ dell’Asia sudorientale puntando non solo sul mercato interno ma anche sul crescente fabbisogno della Cina. In questa prospettiva resta ancora molto da fare per aumentare la produttività delle coltivazioni con uso di sementi migliori, fertilizzanti, antiparassitari ecc. Eccezionali anche le risorse ittiche sia per quanto riguarda la pesca in mare che l’acquacoltura (gamberi). In questo caso gli investimenti previsti sono soprattutto nelle fasi di lavorazione del prodotto e nei porti dedicati. L’isola copre anche il 60% della produzione indonesiana di ferronickel che viene prevalentemente esportato in forma grezza. Una lacuna questa che il Governo prevede di colmare con investimenti per la raffinazione del prodotto, in grande prevalenza di privati, che, congiuntamente all’espansione dell’attività estrattiva dovrebbero raggiungere un valore complessivo di 10 miliardi di dollari.
Bali e Isole Nusa Tenggara
E’ il corridoio che ha sviluppato nel tempo una forte attrattività turistica del Paese con quasi tre milioni di arrivi annui. E il turismo è anche il settore in cui il Governo di Jakarta prevede di concentrare l’afflusso di capitali nei prossimi anni accanto all’allevamento (soprattutto bovini) e alla pesca. Includendo anche le infrastrutture (strade, aeroporti e ferrovie); il valore aggregato degli investimento identificato per lo sviluppo di questo ‘corridoio’ ammonta a poco meno di 5 miliardi di dollari.
Papua e Isole Molucche
All’Indonesia appartiene la parte occidentale della Nuova Guinea che gli Indonesiani chiamano Irian Jaya.
Analogamente a Sulawesi, il territorio ha una forte vocazione agricola e nell’area di Merauke il Governo di Jakarta punta ora a sviluppare un forte polo di produzioni intensive su scala industriale (con un modello quindi diverso dalla piccola proprietà prevalente in altre zone del Paese) su una superficie di 1,2 milioni di ettari. Le coltivazioni previste sono riso, mais, canna da zucchero, soya, topinambur in aggiunta all’allevamento. A Papua sono localizzate anche le maggiori risorse indonesiane di rame che peraltro sono reperibili anche in altre isole dell’arcipelago (Sumatra, Giava, Nusa Tenggara, Sulawesi). Attualmente nel Paese opera però solo un impianto integrato per la raffinazione del minerale e la produzione di catodi, localizzato a Giava. Altri dovrebbero sorgere nei prossimi anni a Sulawesi, Kalimantan e anche a Papua a Timika. Nell’Isola ci sono anche importanti giacimenti di nickel. Molto elevato il potenziale ittico delle Molucche ricche di specie pregiate, incluse aragoste, valutato in 1,6 milioni di tonnellate annue, che però è sfruttato solo in minima parte per mancanza di strutture adeguate. In fase iniziale lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas.

Mercato e consumi


Abitanti: quasi 240 milioni il dato stimato alla fine del 2012. Ma quanti sono veramente i consumatori di classe media che possono interessare anche le aziende italiane nei settori vincenti (moda, prodotti alimentari, sistema casa ecc) del made in Italy? La valutazione più affidabile, in materia è quella fatta dal gruppo Mc Kinsey: siamo ormai attorno ai 50 milioni di persone (reddito annuo familiare superiore a 8.850 dollari) per una spesa complessiva che si avvicina ai 200 miliardi di dollari. Ed entro il 2030, quando questo mercato avrà raggiunto i 1.100 miliardi di dollari, se ne saranno aggiunti altri 90 milioni In assoluto, è il dato di crescita più elevato nel mondo, dopo Cina e India.
Dove si trovano
Già oggi più della metà della popolazione vive in aree urbane (dove si produce anche il 75% del PIL). L’area metropolitana di Jakarta incluse le città ‘annesse’ come Tangerang, Bogor, Bekasi è indubbiamente il primo punto di accesso. Ma un mito da sfatare è che il mercato si concentri tutto lì. Ci sono altre metropoli (definite city-cluster) come Subaraya (5 milioni di abitanti), Bandung (6 milioni di abitanti) e Samarang (1,5 milioni) nell’Isola di Giava che è anche la più densamente popolata. Medan (4 milioni), Pekanbaru (900mila abitanti) Palembang (1,4 milioni) rispettivamente a nord, nel centro e a sud di Sumatra, Batam (1,5 milioni) sull’Isola omonima vicino a Singapore, Makassar (1,3 milioni) a Sulawesi e Balikpapan nel Borneo (800mila abitanti). E l’urbanizzazione sta crescendo. Nel 2030 si calcola che l’86% della popolazione vivrà nelle città.
Cosa acquistano
La voce più importante rilevata dall’indagine di Mc Kinsey che ha intervistato oltre 5mila consumatori “middle class” in 43 diverse città è l’alimentazione per un mercato specifico che viene valutato in 75 miliardi di dollari. Con un incidenza diversa a seconda delle fasce di reddito: dal 41% per le famiglie con redditi annui attorno ai 9mila dollari scende al 18% per quelle con redditi tra i 20 e i 70 mila dollari anno. Seguita da divertimenti e tempo libero (in cui sono inclusi ristorazione, viaggi ecc) con 26 miliardi, abbigliamento con 22 miliardi, prodotti per la persona (6 miliardi) e salute (4 miliardi). Il resto della spesa sono casa, trasporti, formazione. In tutti i segmenti, tranne che nei trasporti, affitti e utenze, i tassi annui di crescita superano il 5%.
I clienti sono attentissimi alle promozioni, valutano e confrontano i prezzi ma sono estremamente sensibili anche al richiamo dei marchi e in genere piuttosto fedeli alle scelte effettuate. Molto più degli acquirenti cinesi, secondo Mc Kinsey sotto entrambi gli aspetti. Peraltro con significative differenze: il richiamo è più forte nelle città al di fuori di Jakarta dove gli acquirenti sono invece più disinvolti nelle scelte. Resta, sicuramente, una forte attrazione verso marchi stranieri incluso il made in Italy. Ma anche i marchi locali, soprattutto nel settore alimentare, godono, in alcuni casi, di grande popolarità. L’attenzione al “brand” insomma non è necessariamente coniugata con l’esterofilìa.
Dove comprano?
Per i prodotti di fascia alta (abbigliamento, calzature, elettrodomestici, arredo) la strada maestra è rappresentata dai grandi centri commerciali, da più di 160 ipermercati e da oltre 1100 supermercati regolarmente frequentati dalla popolazione. La grande distribuzione copre ormai tutti i maggiori centri urbani. Diverso il discorso per i prodotti da banco: creme e cosmetici, bibite, conserve, biscotti e prodotti da forno, dolciumi, gelati (quando esistono i banchi refrigerati) ecc. Qui il campo si allarga con l’aggiunta dei cosiddetti minimarket. Sono più di 13 mila punti vendita pressoché monopolizzati da due grandi catene, Alfamarket e Indomarket, a cui si aggiunge un numero più ridotto di cosiddetti “convenience store” con un format sostanzialmente analogo (orario prolungato, prodotti essenziali, superficie nell’ordine dei 100/300 m2). E poi c’è l’immensa platea della cosiddetta distribuzione informale con 2,5 milioni di negozi di diverse dimensioni. Irraggiungibili? Non proprio. Grandi gruppi come Coca Cola, Unilever e Nestlé che in Indonesia chiudono i bilanci con margini del 40/50 per cento si sono organizzati con strutture piramidali di agenti e distributori per raggiungere ogni angolo del paese. E la stessa cosa è riuscita a fare l’italiana Perfetti, leader di mercato per le gomme da masticare e collocata nel gruppo di testa anche con le caramelle.
Come si contattano?
Il primo strumento di promozione è pubblicità televisiva: il 95% degli indonesiani di classe media possiede almeno un apparecchio televisivo e il 96% delle persone guarda abitualmente almeno un programma tutti i giorni. Seguono gli altri media: carta stampata e radio ma soprattutto Internet. Il numero degli utenti in rete cresce del 20% ed entro il 2016 raggiungerà la soglia dei 100 milioni. Già oggi il 22% di questa fascia di consumatori trascorre in media un’ora e mezzo navigando tra offerte, siti informativi, blog e social networks. In particolare l’89% è registrato su Facebook. In pratica, dopo gli USA oggi l’Indonesia è il secondo Paese al mondo per numero di account. Il canale di accesso preferito alla rete sono i cellulari. L’85% della popolazione urbana ne possiede uno (la media nazionale è del 60%) e ormai più di un terzo sono smartphones. In pratica, nella telefonia portatile, l’Indonesia è passata direttamente alla seconda e terza generazione.

Industria e mercato delle moto e dell’auto


Un gigante su due ruote
L’Indonesia è già oggi un gigante mondiale nel settore due ruote, sia in termini di mercato che di produzione. I numeri sono di tutto rispetto: oltre 8 milioni di moto prodotte e vendute all’anno. Solo Jakarta, con 1,2 milioni di pezzi all’anno supera (in quantità, non certo in valore) l’intero mercato europeo. Qui, finora, i giapponesi hanno fatto da padroni. Honda e Yamaha da sole coprono il 95% delle vendite, che diventa il 98% con Kawasaki. Ma anche nel settore dell’auto l’Indonesia ha numeri tutt’altro che trascurabili: oltre un milione di veicoli prodotti nel 2012 di cui 740mila vetture passeggeri, oltre 280 mila tra pick up e veicoli commerciali con portata inferiore a 10 tonnellate, e 40mila tra camion e autobus in aumento di 220 mila unità sull’anno precedente. Le immatricolazioni ammontavano a 116mila unità con un aumento di 130mila unità. Il Paese quindi è diventato esportatore netto.
I produttori cinesi (e taiwanesi) entrati sul mercato una decina di anni fa sono scomparsi. Avevano fatto crollare i prezzi ma la qualità era pessima: chi comprava alla fine scopriva che, incluso il costo delle riparazioni, di moto doveva comprarne tre. E così Made in Japan, ha raccolto i frutti: ha abbassato i prezzi di listino e si è ripreso il mercato che nel frattempo è raddoppiato. Nel comparto dell’auto la situazione è analoga: Toyota da sola copre il 40% delle vendite. Aggiungendo Daihatsu, Mitsubishi e Suzuki si arriva all’80%. Tra i non giapponesi i numeri più significativi sono quelli di Kia Motors: 1,4%. Il forte predominio giapponese in entrambi i settori pone evidenti limiti alle possibilità di ingresso delle aziende italiane delle corrispondenti filiere produttive: componentistica, sistemi di produzione, attrezzature per garage e officine. Ma le opportunità non mancano, bisogna sapere però dove si collocano.
Dimensione ASEAN
Il mercato “automotive” è uno dei settori in cui hanno avuto maggiore impatto gli accordi di libero scambio tra i Paesi Asean (AFTA: Asian Free Trade Agreements) che danno diritto a esportare a tariffa zero veicoli moto e componenti per i quali è possibile dimostrare che il 50% del valore aggiunto è stato realizzato all’interno dell’area. Questo ha consentito ai costruttori enormi economie di scala, una specializzazione dei rispettivi stabilimenti, un ampliamento degli sbocchi e il consolidamento di “supply chains” e di distretti di produzione competitivi a livello mondiale. Cogliendo anche le opportunità specifiche di ogni Paese, la Thailandia parte in posizione nettamente avvantaggiata. Con 2,5 milioni di veicoli prodotti si colloca in prima posizione tra i Paesi dell’area e al quinto nel Mondo per i veicoli commerciali leggeri. E’ anche in netto vantaggio sotto il profilo ambientale: nel Paese per i veicoli nuovi, sono in vigore le norme Euro 4 che invece Jakarta (attualmente Euro 2) prevede di adottare non prima del 2015. Ma anche l’Indonesia dispone di forti vantaggi competitivi: accanto alle dimensioni e alla crescita del mercato interno, anche il costo decisamente più ridotto della manodopera e il prezzo dell’energia (8 centesimi di dollaro per kWh in media) tra i più contenuti dell’area Asean e decisamente inferiore anche a Paesi come Cina o India.
La componentistica deve crescere
Secondo Hadi Surjadipradja presidente dell’Associazione indonesiana dei produttori di componenti auto (GIAMM: Association of Car and Motorcycle Equipment Industries) l’anello debole del sistema è la componentistica. Con un numero di aziende decisamente più ridotto rispetto alla Thailandia, Giamm conta circa 155 aziende associate rispetto alle oltre 400 dell’equivalente indonesiana (TAPMA: Thai Autoparts Manufacturers Association). Si aggiungono 800 aziende classificate come fornitrici di secondo e terzo livello con livelli di automazione decisamente ridotti come emerge anche dal numero dei dipendenti occupati: circa 650mila. Sono aziende che in molti casi si limitano a coprire il mercato della ricambistica non OEM. La sfida, secondo Surjadipradja è invece di far emergere un nucleo ‘forte’ di operatori disposti a giocare fino in fondo la carta del mercato Asean che nel suo complesso ammonta a circa 2,6 milioni di veicoli prodotti ogni anno e a 3 milioni di veicoli venduti. Si aggiungono le opportunità aperte sugli altri mercati asiatici (Cina, Giappone, Corea del Sud) a cui Indonesia e Thailandia sono legati da accordi di libero scambio. Ma occorre una forte immissione di tecnologia imposta dagli standard di qualità richiesti dai costruttori e dalle normative tecniche. A cui si aggiungeranno, nel prossimo futuro anche quelle imposte dalle Autorità locali intenzionate a imporre specifiche prescrizioni (Indonesian Standards) per i veicoli immatricolati nel Paese. Riguardano freni, vetri e pneumatici, cinture , paraurti, aibags ecc.
Tecnologia cercasi
I numeri quindi ci sono e le opportunità non mancano. In particolare, con l’obiettivo di rafforzare il settore , il Governo di Jakarta, che punta al traguardo di una produzione annua di 1,7 milioni di veicoli entro il 2015, ha deciso di esentare da dazi e imposte l’importazione di macchinari da parte di aziende locali impegnate ad aumentare almeno del 30% la capacità produttiva. Un ulteriore porta di ingresso può essere data dalle fornitura di tecnologia e know how per i produttori di veicoli elettrici e a basso impatto ambientale (metano, biodiesel ecc.) che il Governo di Jakarta ha deciso di incentivare. Più complessa la sfida per i produttori italiani di componentistica che per avere una reale presenza sul mercato dovrebbero decidere di localizzare almeno in parte la produzione. Tra le aziende italiane è il caso ad esempio di Pirelli che sta aprendo uno stabilimento di gomme per moto di grossa cilindrata destinato a coprire l’intero mercato Asean, in joint venture con il gruppo Astra, che in Indonesia è azienda leader non solo nella componentistica ma anche nelle reti di vendita e assistenza. Infine, lo stesso Governo, ha deciso di esentare dai dazi di importazione i veicoli pesanti e bus da assemblare localmente (IKD: incomplete knocked down) e appare intenzionato ad estendere la stessa agevolazione anche per le vetture che, in versione IKD, pagano un dazio del 7,5%.
Piaggio pronta a raddoppiare
L’industria europea, complessivamente, si è mossa con grande ritardo su questo mercato dove è presente con quote trascurabili. E quasi esclusivamente sulla fascia alta con marchi come Audi e BMW. Nel settore due ruote un importante eccezione e invece il gruppo Piaggio impegnato nella costruzione di una forte presenza commerciale basata su una quarantina di concessionari che hanno accettato senza difficoltà di investire nell’allestimento degli spazi. La rete della casa di Pontedera ormai copre tutte le isole: Sumatra, Giava, Bali, Sulawesi Kalimantan e una decina di città. Resta esclusa solo Papua Nuova Guinea. Il Gruppo italiano può contare su una grande immagine ereditata dal passato e oggi l’Indonesia viene subito dopo l’Italia per numero di Vespa Club in attività tanto che i modelli d’epoca sul mercato locale si vendono a diverse migliaia di dollari. Su scala più grande lo sbarco in Indonesia duplica l’operazione già riuscita in Vietnam dove Piaggio ha avviato con successo nel 2008 uno stabilimento già in fase di raddoppio riuscendo a creare un mercato ‘premium’ prima inesistente. La considerazione di fondo è che nella maggior parte dei Paesi Asean il mercato dell’auto è ancora prevalentemente di prima motorizzazione e quindi in forte crescita. Invece quello delle due ruote ha ormai raggiunto una fase stabile in termini di unità vendute. Si apre quindi lo spazio per modelli più sofisticati anche in termini di immagine, che consentono maggiori margini. Questa scelta è supportata da un ‘format’ commerciale con caratteristiche inedite per questi Paesi: layout dei punti vendita di livello elevato e riconoscibile, personale in divisa, gadget e accessori marchiati, campagne d’immagine. Attualmente gli scooter sono importati dal Vietnam in esenzione di dazio grazie agli accordi doganali Asean. Il passaggio successivo però è già tracciato sulla carte: quando le vendite cominceranno ad avvicinarsi alle 100mila unità anno, partirà un nuovo stabilimento.

Tecnologie e macchinari


L’immagine forte del made in Italy
Le aziende italiane sono state in passato (assieme a quelle tedesche e giapponesi) le principali fornitrici di macchinari tessili, macchine utensili, per lavorazione del legno, cuoio, plastica, ceramica, marmi e per l’industria alimentare dell’Indonesia. Acquisendo una notorietà e un livello di apprezzamento rimasti intatti fino a oggi. Da allora però (si parla degli anni ‘80/’90) sono accadute molte cose: crisi asiatica, svalutazione della rupia, sbarco in massa di fornitori cinesi e taiwanesi con un’offerta di beni e macchinari a basso costo; ma anche questa fase è ormai terminata e la bilancia, per molti aspetti si sta riequilibrando. L’economia indonesiana è nuovamente in fase di rilancio: industria dell’auto e delle due ruote, filiera tessile e dell’abbigliamento, calzature, elettronica, edilizia e costruzioni, beni di largo consumo agricoltura e trasformazione alimentare. E’aumentato in misura consistente il numero di consumatori di classe media e quindi sono cresciute le esigenze in termini qualitativi. All’industria servono prodotti e tecnologie affidabili, mentre l’esperienza fatta dalle imprese indonesiane con il made in China non è sempre positiva. Soprattutto nei macchinari: costano tuttora meno (anche se le differenze si stanno riducendo) ma rendono e durano anche molto meno. Si guastano più facilmente e a conti fatti, molte volte, il vantaggio si rivela inesistente.
Di qui una nuova finestra di opportunità che i costruttori di macchinari giapponesi, sudcoreani, tedeschi, svizzeri, stanno già cogliendo. In tutti i settori di attività è infatti individuabile una fascia di aziende locali ben posizionate, con situazione finanziaria solida, disposte a investire in tecnologie che garantiscano performance e livelli di qualità adeguati. Il mercato, in sostanza, si sta diversificando ed è diventato molto più professionale. Quali spazi e in quali settori per le aziende italiane?
Macchinari per l’industria alimentare
Le nuove opportunità nascono da un duplice movimento: l’aumento dei redditi nel Paese e quindi della spesa alimentare della popolazione e la visibile insufficienza di un’adeguata offerta locale di prodotti. Nei supermercati indonesiani si trovano acque minerali, succhi di frutta e prodotti al cioccolato importati (anche dall’Italia). Ed è un paradosso in un Paese che non manca certo di fonti di acqua, produzioni frutticole e che è anche il primo produttore mondiale di polvere di cacao. Paradosso che il Governo indonesiano si propone di superare con il Piano pluriennale di sviluppo avviato nel 2011 in cui sono identificate le aree dove concentrare lo sviluppo dell’industria alimentare, dotandole delle necessarie infrastrutture per un rapido invio dei prodotti. Tradotto in termini di potenzialità di mercato per le aziende italiane, l’intero scenario propone un ampio spazio per la fornitura di catene del freddo, macchine per imbottigliamento e packaging, impianti per panificazioni, prodotti da forno e paste alimentari il cui consumo in Indonesia è in costante crescita con ‘noodles’ e altri formati a base di grano ma anche tapioca, riso e altri cereali spesso in abbinamento con spezie che ‘caratterizzano’ il prodotto.
Industria della ceramica
L’Indonesia è il primo mercato di piastrelle e materiali da costruzione dell’intero sudest asiatico con una lunga tradizione nel settore”, spiega Luca Ferraris, manager del gruppo Sacmi, che aggiunge, “da due anni ormai stiamo assistendo a una significativa ripresa degli investimenti. Certo, la concorrenza cinese si fra sentire e incide sui margini con cui operiamo e che non possono essere più quelli del passato. Ma per investitori che puntano sulla qualità del prodotto, le nostre macchine sono ancora il punto di riferimento”. Sacmi è presente nel Paese anche con una piccola fabbrica per la produzione di stampi, tamponi e materiali di consumo con una cinquantina di dipendenti.
Lavorazione marmo e graniti
Marmi e graniti provenienti in larga parte dalle cave situate nell’isola di Sulawesi, sono largamente impiegati nel Paese che sta vivendo un forte boom edilizio. Ormai la maggior parte delle macchine per taglio blocchi e successiva lavorazione (inclusi materiali di consumo, come le seghe diamantate) proviene dall’Asia: Taiwan, Cina. E alcune tipologie più semplici (macchine da cava) sono anche prodotte localmente. Il made in Italy (che ha consentito in passato il decollo dell’industria locale) è ancora largamente presente sul mercato dell’usato. Ma su quello del nuovo è attualmente confinato ad alcune nicchie a maggiore valore aggiunto. Ad esempio: macchine a controllo numerico a 5 assi, torni per la lavorazioni di colonne e via dicendo. Per contrastare la supremazia cinese su questo mercato occorre una maggiore presenza sul posto, anche perché buona parte del settore del marmo è in mano alle comunità cinese e con la Cina esiste ormai un redditizio mercato per l’esportazione di blocchi che consente ai produttori indonesiani di finanziare il rinnovo del parco macchine con operazione di countertrade sulla base di contratti pluriennali.
Packaging
Con un fatturato pari a 4,4 miliardi di dollari, in crescita dell’11% su base annua, l’industria del packaging è uno specchio fedele dell’attuale dinamismo dell’economia indonesiana. L’attività è trainata da due settori chiave: l’industria alimentare che ha un fatturato annuo pari a 73 miliardi di dollari con una crescita annua attorno al 10% e la farmaceutica (4,3 miliardi) con un trend di crescita ancora superiore (12%). Insieme coprono il 70% del fabbisogno. I dati sono forniti dalle due associazioni di settore. La tecnologia è in gran parte importata e le cifre sono significative: 360 milioni di dollari il dato 2011 (il 2012 non è ancora disponibile). Riguardano tutte le filiere: imbottigliamento e riempimento, confezionamento, etichettatura. L’Italia è ben posizionata con esportazioni per oltre 70 milioni e una quota di mercato in crescita, preceduta dalla Germania (90 milioni) ma nettamente davanti al Giappone (30 milioni). Avanza la Cina su livelli analoghi a quelli nipponici, e un trend crescente come il nostro.

Energia


La ricchezza da sola non basta
Può sembrare un paradosso: l’Indonesia è stata tra i fondatori dell’OPEC, è il primo esportatore mondiale di carbone (350 milioni di tonnellate anno), detiene il 40% delle risorse mondiali di energia geotermica, è il terzo esportatore mondiale di gas naturale liquefatto, dispone di un grandissimo potenziale nel settore delle energie rinnovabili (biomasse, eolica, solare) eppure il Governo di Giakarta spende 17 miliardi di dollari all’anno per sovvenzionare l’energia; un terzo della popolazione continua a non avere accesso alla rete elettrica e spesso le imprese che operano nel Paese devono organizzarsi con generatori di supporto per fare fronte alle interruzioni di rete. Le spiegazioni non mancano: assetto geografico del Paese suddiviso in grandi e piccole isole, lontananza dei giacimenti dai centri di maggiore consumo, “anni perduti” (in particolare gli ultimi) della dittatura del generale Suharto in cui non sono stati fatti investimenti strategici e soprattutto forte aumento del fabbisogno che ha mutato i termini dell’equazione: un Paese orientato a esportare le sue risorse si è trovato ad averne bisogno per il proprio sviluppo. Non è un fatto nuovo: è accaduto, negli anni novanta, anche in Cina. Le Autorità indonesiane ne sono consapevoli e hanno iniziato ad affrontare il problema anche se i tempi per l’avvio dei nuovi progetti annunciati scontano tempistiche, contraddizioni e resistenze di un apparato amministrativo e di un sistema politico complessi.
Sistema elettrico
La potenza installata, che negli ultimi 10 anni è aumentata del 25%, ammonta attualmente a 44mila Megawatt di cui il 40% è alimentato a carbone, il 29% a petrolio, il 21% a gas l’8% sono impianti idroelettrici e il 2% geotermici. L’intero settore (produzione, trasporto, distribuzione) fa capo per il 90% a PT PLN (Perusahaan Listrik Negara). Obiettivo del Governo è di riuscire, entro il 2020 ad allacciare alle reti elettriche il 90% della popolazione (attualmente la copertura è del 70%) e di far fonte all’aumento dei prelievi che crescono del 5% all’anno, con conseguenti investimenti, nelle reti di trasporto e distribuzione e in nuove centrali. Sono circa 10mila Megawatt addizionali che vanno a completare un programma di potenziamento da 20mila Megawatt avviato nel 2006. A cui dovrebbero aggiungersi, nei prossimi tre/quattro anni ulteriori 10 mila Megawatt da fonti “pulite”: gas e rinnovabili. Per incentivare gli investimenti e accelerare la costruzione di nuovi impianti anche con l’apporto di capitali privati, il Governo sta mettendo a punto un nuovo sistema di tariffe incentivanti (FIT: fit in tarifs) per la cessione a PT PLN. Non è comunque un problema di facile soluzione in quanto le attuali tariffe FIT, pari, in media, a 10 centesimi di dollari per kWh, sono decisamente superiori a quelle praticate al consumo (circa 7 cents) con il risultato che la differenza viene versata a PT PLN sotto forma di sovvenzioni che costano al bilancio dello stato 8 miliardi di dollari all’anno.
Fonti rinnovabili
Di particolare rilievo i programmi nel settore geotermico dove la potenza installata dovrebbe crescere nei prossimi anni dagli attuali 1.400 a 4.000 Megawatt con una serie di progetti avviati grazie anche al contributo della cooperazione neozelandese, per poi raddoppiare nel decennio successivo fino a raggiungere i 10.000 Megawatt. Le risorse sfruttabili in questo settore, secondo il Governo di Jakarta (Ministero dell’Energia) ammontano a 28.000 megawatt. Decisamente sottoutilizzato anche il potenziale idroelettrico calcolato in 76.000 Megawatt mentre il parco attualmente installato ammonta a 5.700 Megawatt. Ovviamente il problema maggiore, in entrambi i casi è rappresentato dalla dislocazione delle risorse, generalmente molto distanti dai centri di consumo e spesso localizzate in zone “sensibili” sotto il profilo ambientale. Di grande interesse anche la filiera delle biomasse con un potenziale (scarti della produzione di riso, olio di palma, zucchero ecc.) valutato in 50.000 Megawatt, nonché quella eolica e solare che, allo stato attuale sono sostanzialmente inesplorate. Il potenziale eolico, tenuto conto dei 54mila chilometri di coste del Paese viene valutato tra i 10.000 e i 35.000 Megawatt. Ma, ad oggi, nel Paese è installato solo un impianto dimostrativo. Il tasso di irradiazione medio del Paese (4,8 kWh per m2) e la dispersione della popolazione rurale indicano anche un grande spazio aperto per la diffusione del fotovoltaico. Di fatto, anche in questo caso, la capacità installata non supera i 12 Megawatt. Il motivo è in buona parte imputabile alla mancanza di una sufficiente offerta locale di pannelli e di servizi di installazione manutenzione nonché di sistemi e procedure per la cessione alla rete.
Gas naturale
E’ la risorsa su cui il Paese sta puntando per risolvere alcuni dei nodi più urgenti ed è anche un settore in cui le imprese italiane possono cogliere importanti opportunità (impianti di trasporto, distribuzione, apparecchi di misura, impianti a gas, filiera autometano). Le riserve del Paese ammontano a 4mila miliardi di m3 anno, la produzione a 73 miliardi e le esportazioni (sotto forma di gnl) a 40 miliardi. Le iniziative più importanti riguardano la costruzione di gasdotti (attualmente la rete misura 3.500 chilometri) sia per il trasporto che per la distribuzione, in modo da completare la copertura delle isola di Giava e di Sumatra dove si concentrano gli utilizzi industriali. Si aggiungono la costruzione di rigassificatori per utilizzare anche il gnl proveniente da giacimenti lontani che finora era destinato prevalentemente alle esportazioni e quella di nuove centrali a ciclo combinato alimentate a gas per colmare in tempi brevi il gap nell’offerta di energia elettrica.
Petrolio Carburanti
Oggi l’Indonesia importa il 46% della benzina e il 14% del carburante diesel consumati. Inoltre i prezzi al consumo sono fortemente sovvenzionati e contribuiscono, assieme alle sovvenzioni per l’energia elettrica, a sottrarre ogni anno 17 miliardi dalle entrate dello Stato. Attualmente la capacità installata è di circa 1 milione di barili al giorno suddivisi in 8 impianti gestiti dal gruppo Pertamina, che coprono solo il 70% del fabbisogno del Paese. Il Governo ha messo a punto un progetto per la costruzione di tre raffinerie da 300mila tonnellate di cui due localizzate a Botang (East Kalimantan) e una a Sumatra. Dovranno essere in parte alimentate da importazioni in quanto dal 2003 l’Indonesia, che in passato era un importante esportatore di petrolio con una produzione che nei primi anni ’90 aveva toccato 1,7 milioni di barili al giorno, è diventata ormai, da dieci anni, importatrice netta per quantitativi attualmente valutati in 400mila barili al giorno. Le riserve attuali ammontano a 4 miliardi di barili ma il dato potrebbe ulteriormente migliorare con la ripresa su larga scala dell’attività di esplorazione.

Filiera agroalimentare


Un colosso alimentare? In apparenza sì: primo produttore (ed esportatore) mondiale di olio di palma, numero due mondiale per la gomma naturale e la manioca, al terzo posto dietro India e Cina per il riso con 40 milioni di ettari di terre coltivate e 90 milioni di ettari di foreste. Eppure chi va in un supermercato indonesiano scopre che il 70% della frutta e della verdura esposti sono importati dall’estero e lo stesso vale per buona parte dei prodotti esposti: inclusi pomodori pelati e acqua minerale. Sono i paradossi di un Paese che per lungo tempo ha avuto un’agricoltura polarizzata in due direzioni: economia di autosussistenza e grandi coltivazioni finalizzate all’export.
Lo scenario però negli ultimi anni è cambiato: ormai la maggior parte della popolazione vive in aree urbane: cambiano quindi i consumi e tutta la catena dell’approvvigionamento alimentare. Il Paese sta iniziando ad adeguarsi al nuovo scenario sia pure con un inevitabile ritardo e questo apre notevoli opportunità anche per le imprese italiane in diversi settori: fornitura di macchinari e impianti per l’agricoltura, l’industria di trasformazione e la logistica collegate (esempio: catene del freddo). Si aggiunge la crescita di un nuovo mercato per prodotti e specialità alimentari costituito da una crescente fascia di consumatori di classe media
Nuovi consumi
In media 37% della spesa delle famiglie Indonesia è coperta dai consumi di alimenti freschi. Ma c’è fortissima propensione anche per prodotti confezionati Alcuni esempi: le vendite di gelati sono esplose nell’ultimo anno (+ 32%). Lo stesso è accaduto con prodotti tradizionali come la pasta che però sono proposti in nuovi formati e con l’aggiunta di diverse qualità o il caffè ormai venduto prevalentemente in versione “instant coffee” (caffè solubile). L’indicazione che può essere estesa a un vasto numero di categorie: ad esempio merendine, biscotti e prodotti a base di cacao per i quali l’Indonesia registra il consumo pro capite più alto dell’Asia.
Un futuro verde
Il 40% della popolazione indonesiana è oggi coinvolta nell’attività agricola. Sulla base dei trend attuali, si prevede che nei prossimi anni, con l’emigrazione verso le città, il numero subirà una forte contrazione. Le aree coltivate attualmente ammontano a 40 milioni di ettari di cui un terzo dedicato a riso e cereali. Un recente rapporto sul settore di Mc Kinsey indica che nei prossimi 13 anni con una serie di interventi mirati l’Indonesia potrebbe diventare un importante esportatore netto per un totale di 130 milioni di tonnellate in aggiunta a 180 milioni per coprire i consumi interni. In totale il valore della produzione potrebbe raggiungere, ai prezzi attuali, 250 miliardi di dollari rispetto agli attuali 70 miliardi. Questo con una transizione verso coltivazioni a maggiore valore
La sfida della produttività
La produttività del settore agricolo, in Indonesia, è ancora molto bassa: 3mila euro in media per addetto rispetto ai 9mila euro della vicina Malaysia. Ma anche all’interno dello stesso Paese ci sono differenze eloquenti: nella coltivazione della palma da olio le rese per ettaro sono in media di 2,3 tonnellate per ettaro. Ma in alcuni programmi sperimentali si è arrivati a 11 tonnellate. Questi dati indicano che ci sono vasti spazi di miglioramento. Con quali interventi? Servono evidentemente investimenti: infrastrutture di trasporto e stoccaggio nelle aree rurali, sistemi di irrigazione (inclusa una migliore manutenzione di quelli esistenti), utilizzo di sementi ad alto rendimento, tecnologie aggiornate (es impianti a goccia) e macchinari, migliore accesso al credito grazie anche a formule commerciali come il contract farming per conto di multinazionali e catene di grande distribuzione (diverse iniziative di questo tipo sono già state avviate).
La ricchezza del mare
Il settore ittico copre il 3% del Pil indonesiano e fornisce il 60% delle proteine consumate dalla popolazione. Sono circa 22 milioni di tonnellate prodotte ogni anno suddivise in parti sostanzialmente uguali tra acquacoltura e pesca marina. In quest’ultimo settore però permangono tecniche di pesca spesso inadeguate, c’è una forte carenza di infrastrutture per lo stoccaggio, la corretta lavorazione e il trasporto del prodotto e soprattutto mancano adeguati controlli che da un lato impediscono uno sfruttamento razionale e compatibile delle risorse esistenti nelle aree più frequentate, con il rischio di un rapido calo delle riserve per l’eccesso di catture di alcune specie quali ad esempio i tonni a pinna gialla. Mentre in altre aree esistono risorse tuttora inutilizzate di specie da fondale (naselli, seppie, gamberi, seppie ecc) che, secondo gli esperti, consentirebbero di aumentare la produzione attuale del 20%. Vanno poi considerati i danni della pesca illegale (non autorizzata) da parte di flotte straniere con perdite per le casse dello Stato calcolate in 4 miliardi di dollari all’anno. Ma il potenziale di crescita maggiore, in termini quantitativi, risiede nell’acquacoltura. Si calcola che lungo le coste e nei fiumi siano disponibili 17 milioni di ettari adatti a questo tipo di attività di cui solo una minima quota (poco più di un milione di ettari) è effettivamente sfruttata, prevalentemente per l’allevamento di gamberi. Anche in questo settore sono possibili forti aumenti di produttività sull’esempio di quelli conseguiti, ad esempio, in Thailandia.

Costruzioni e infrastrutture


Nel 2012 il fatturato dell’industria delle costruzioni indonesiana, in crescita del 7% su base annua, ha superato i 78 miliardi di dollari. Il settore copre il 10% del Pil del Paese; nel 2008 non raggiungeva i 40 miliardi. Nei primi tre mesi del 2013 i consumi di cemento sono stati di 12,5 milioni di tonnellate con una crescita del 18 per cento su base annua e l’indice del settore costruzioni della Borsa di Jakarta, tra ottobre 2012 e marzo 2013, è salito quasi del 50%. L’attività è trainata dall’edilizia civile che in tutte le sue componenti (residenziale, uffici, alberghi) si basa su fondamenti solidi: elevato tasso di risparmio, forte domanda dei privati, costi dei mutui generalmente sostenibili rispetto ai redditi, elevati margini operativi di costruttori e developer.
La sfida delle infrastrutture
Ma c’è un’altra componente di grande rilievo per le aziende italiane interessate a operare con il Paese: sono le infrastrutture. L’Indonesia, sotto questo profilo, si trova in forte ritardo rispetto agli altri Paesi asiatici e il Governo ne è pienamente consapevole. In particolare la parte più rilevante del piano di investimenti programmati per il prossimo decennio (MP3EI: Master Plan for the Acceleration and Expansion of Indonesia Economic Development) per un valore superiore ai 400 miliardi di dollari che comprende uno sterminato elenco di progetti (più di 500) è dedicata ai trasporti: autostrade reti urbane, ferrovie, porti e aeroporti da realizzare, in buona parte sotto forma di Public Private Partenership. I capitali per realizzare queste opere non mancano grazie al forte interesse degli investitori asiatici, alla solidità finanziaria dello Stato e al conseguente miglioramento creditizio del Paese. “Il nostro problema non è la mancanza di soldi ma il fatto che non riusciamo a implementare quello che abbiamo progettato. E sotto questo aspetto dobbiamo cambiare”, ha rilevato lo stesso Presidente indonesiano, Susilo Bambang Youdhoyono, presentando il Piano MP3EI. Le difficoltà maggiori sono dovute a fattori ricorrenti nel contesto asiatico: collusioni tra Amministrazioni e operatori privati, veti incrociati, lunghi tempi necessari per l’approvazione dei progetti dovuti anche alle resistenze della popolazione locale. Molte opere sono in forte ritardo per questi motivi. E’ il caso della sezione occidentale della nuova circonvallazione di Jakarta e dei 615 chilometri del sistema di autostrade (costo: 5 miliardi di dollari) suddiviso in 20 tratte che dovrebbe collegare le estremità dell’Isola Java da ovest a est: meno del 10% è stato ultimato e per metà del percorso devono ancora essere acquisiti i terreni. Ma ci sono forti segnali che, anche sotto questo profilo, lo scenario stia gradualmente cambiando, grazie anche alla recente approvazione di una legge (National Land Acquisition Law) che dovrebbe regolamentare le procedure di esproprio (e sperabilmente di compensazione). Inoltre il Governo ha deciso di stabilire delle priorità. In particolare sta mettendo a punto un programma di 40 progetti definiti come “prioritari” da realizzare nell’arco dei prossimi 5 anni (entro il 2017) dei quali una quindicina saranno finanziati da imprese di Stato.
Nuovi progetti in fase di avvio
Il programma di spesa per le infrastrutture indicato dal ministero dei Lavori Pubblici per il 2013 ammonta a 51 miliardi di dollari di cui 20 dovrebbero provenire da stanziamenti statali. Nel 2012 sono iniziati i lavori di raddoppio in più tranches, delle strutture del porto di Jakarta con un investimento totale previsto in 4,5 miliardi di dollari. In fase di avvio anche i lavori per la realizzazione del Terminal 3 dell’aeroporto della capitale (Soekarno-Hatta Airport). Entro breve lo Stato dovrebbe avviare il processo di aggiudicazione delle concessioni per sei diverse autostrade urbane a pagamento a Jakarta mentre, sempre a Jakarta, uno dei progetti più rilevanti che dovrebbe essere realizzato anche con contributi della cooperazione giapponese, è una metropolitana leggera sopraelevata (Mass Rapid Transit line) di 15 chilometri con eventuale prolungamento di ulteriori 8 chilometri e un investimento previsto di 1,7 miliardi di dollari. Le trattative sono in corso con l’Amministrazione della capitale e due consorzi di costruttori (uno di aziende statali e uno di operatori privati) per ridurre i costi. Recentemente il sindaco della capitale ha deciso di rilanciare anche il progetto di costruzione di un grande sistema di dighe (Giant Sea Wall) per proteggere Jakarta dalle inondazioni con un investimento previsto attorno ai 15 miliardi. Procede anche il progetto di un ponte stradale e ferroviario che dovrebbe collegare Sumatra con Giava. Il presidente Bambang Yudhoyono ha ripetutamente dichiarato che vorrebbe avviare i lavori nel 2014. In entrambi i casi si tratta di opere di grande impegno con investimenti previsti attorno ai 15 -20miliardi di dollari ciascuna. Infine il progetto più impegnativo prevede di coprire l’intera isola di Sumatra con un nuovo sistema autostradale di 2 mila chilometri da realizzare in più tratte, con un costo previsto di 35 miliardi di dollari (Trans Sumatra Toll Road).
Ferrovie
Tra le opere in corso di realizzazione nel settore ferroviario la più importante riguarda il collegamento di 700 chilometri a doppio binario tra Jakarta e Surabaya (Trans-Java Pantura railway). Circa 430 chilometri restano da completare. Lungo la linea potranno transitare fino a 200 treni al giorno. I collegamenti attuali tra le due città seguono attualmente due percorsi diversi con una capacità massima di 64 convogli. La velocità di percorrenza scenderà da 11 a 9 ore. La linea prevede anche un traffico merci di un milione di container anno. Due linee di cui una ad alta velocità (2 miliardi di dollari) e una per il traffico pendolari (250 milioni), sono programmate anche per il collegamento di Jakarta con l’aeroporto. Più in là nel tempo è previsto anche il collegamento ad alta velocità tra Jakarta e Bandung, con il supporto della cooperazione giapponese. Costo previsto: 6,7 miliardi di dollari.
I progetti restanti per un importo superiore a 8 miliardi di dollari sono prevalentemente finalizzati al trasporto del carbone estratto dai giacimenti interni del Paese. Entro il 2013 dovrebbe essere designato il consorzio per la costruzione di una linea di 385 chilometri che collegherà le miniere situate nel centro del Borneo (Kalimantan) con il porto di Batanjung. Costo indicativo: tra 2,3 e 3,3 miliardi di dollari. In fase di definizione anche un progetto carbonifero integrato da 2,4 miliardi di dollari, gestito dal gruppo privato Rajawali. Prevede la costruzione di una linea di 300 chilometri per il trasporto del carbone estratto nel centro di Sumatra verso la costa. Sarà finanziato dalla Cina che importerà anche il 50% della produzione. Altri due progetti analoghi, finanziati uno dalla Russia (Balikpapan coal railway) e uno dagli Emirati Arabi (Bengalon coal railway) per complessivi 3 miliardi di dollari sono invece programmati nel Borneo.
Costruttori statali e stranieri
Il settore delle costruzioni locali è dominato da tre grandi gruppi a controllo statale ma quotati in Borsa: Wijaya Karya (WIKA), Adhi Karya (ADHI) e Pembangungan Perumahan (PTPP). Operano sia nel settore civile che in quello delle infrastrutture e godono tutti di eccellente salute. Nel 2012 hanno chiuso i bilanci con risultati in forte crescita il cui ricavato servirà per finanziare nuovi progetti. Adhi Karya che, stando ai preconsuntivi di fine anno, avrebbe aumentato i profitti del 192%, punta ora a rilanciare un progetto di monorotaia nel centro di Jakarta, con due linee per complessivi 28 chilometri, avviato una decina di anni fa e poi abbandonato, con un investimento previsto di circa 1,2 miliardi di dollari. Pembangungan Perumahan (PTPP) con utili in crescita del 73% su base annua, ha accumulato consistenti disponibilità liquide con cui sta avviando nuovi iniziative di sviluppo immobiliare e nel settore delle autostrade a pagamento. Grazie ai rapporti agevolati con l’amministrazione queste società sono anche i partner privilegiati per le società di costruzione straniere che intendono entrare sul mercato con particolare riguardo al settore infrastrutture. Dove, in numerosi casi, hanno bisogno di un apporto tecnologico esterno sia in fase di progettazione che di costruzione Questo spiega anche la forte presenza sul mercato indonesiano di costruttori stranieri, in prevalenza giapponesi, che coprono il 60% del mercato dei grandi lavori assegnati in regime di Public Private Partnership.

Costruttori privati e subcontractor


Il quadro dei costruttori privati locali è polarizzato tra un ristretto numero di grandi gruppi che operano nel settore civile anche con opere di buon livello qualitativo come Total Bangun Persad o attive nel settore delle infrastrutture (soprattutto autostrade a pagamento) come Citra Marga Nusaphala Persad che sta avviando la costruzione di una nuova autostrada che collegherà Jakarta con la parte occidentale di Java. Seguite da un vasto numero di imprese minori (se ne contano 58 mila) che però hanno generalmente una capacità limitata sotto il profilo tecnico, anche per mancanza di risorse umane adeguatamente preparate; e questo può creare problemi in quanto la normativa locale impone ai ‘contractor’ stranieri di ricorrere a subappalti locali per opere di valore superiore ai 100 milioni di euro. Alcune imprese indonesiane operano anche nei Paesi del Golfo e nel sudest asiatico Ma sono pochi gli ingegneri indonesiani in possesso del certificato di qualifica (Chartered Professional Engineer certificate) riconosciuto dall’insieme dei Paesi ASEAN.
Materiali da costruzione
Uno dei principali colli di bottiglia del mercato indonesiano è l’approvvigionamento di materiali, i cui costi sono in forte aumento, dovuto all’insufficienza sia qualitativa che quantitativa dell’offerta interna e agli elevati costi della logistica che spesso rendono più conveniente l’importazione via mare dall’estero, rispetto al ricorso a fornitori locali. Il problema investe tutta la filiera: dai prodotti di base come il tondino e i profilati in acciaio, a particolare tipi di cemento, alle tecnologie costruttive più avanzate (fondazioni, tunneling ecc), ai diversi moduli e componenti inclusi infissi e pavimenti ed impiantistica civile. Questi aspetti rappresentano indubbiamente un’ulteriore opportunità per le imprese italiane interessate a operare nel Paese, che possono proporsi attraverso diversi canali: fiere di settore come IndoBuildTech che si tiene generalmente in marzo, contatti diretti con le maggiori imprese di costruzione e gli studi di ingegneria e di architettura o anche con le principali associazioni di categoria tra cui AKI (indonesian Contractors Association) e IAI (Indonesian Institute of Architects).

Come insediarsi sul mercato


I soggetti non residenti (società e persone fisiche) possono operare in Indonesia in un vasto numero di attività ma esistono anche significative restrizioni che riguardano ad esempio le attività riservate per legge alle piccole e medie imprese e alle cooperative, settori in cui è obbligatoria la presenza di partner locali e/o in cui il partner straniero non può acquisire quote di maggioranza, e settori (professioni incluse) riservati solo a soggetti residenti. Quale che sia la formula societaria prescelta tutte le attività che fanno capo a soggetti non residenti richiedono un’iter di approvazione specifica da parte di un organismo specifico: l’Investment Coordinating Board (BKPM).
Società a responsabilità limitata (PT: Perusahaan Terbatas)
E’ la formula societaria più comune. Nel caso di partecipazione o controllo estero sono costituite sotto forma di PT PMA. Le normative indonesiane forniscono solo indicazioni molto generali relativamente allo statuto e agli organi societari: Consiglio di Direzione, incaricato della gestione ordinaria, il Consiglio di sorveglianza con funzioni di controllo ed eventualmente indirizzo strategico e l’Assemblea dei soci. Questi organismi possono anche essere costituiti in forma ridotta con un direttore, un commissario e almeno due soci. Per le PT PMA non ci sono prescrizioni specifiche riguardo alla nazionalità dei componenti degli organi sociali che possono essere anche stranieri.
Partnership
Sono la versione indonesiana delle società di persone a responsabilità illimitata regolamentate dal Codice Civile. Di fatto le politiche del Governo (autorizzazioni ecc.) impediscono la partecipazione estera a queste società, benché non la escludano in linea di principio. Le procedure di costituzione sono molto semplici: in sostanza basta un atto notarile. Esistono sotto tre forme: Partnership civili (Persekutuan Perdata o PP) generalmente utilizzate per operazioni specifiche da effettuarsi in un arco di tempo limitato: Partnership commerciali (Firma o Fa) largamente impiegate in attività commerciali e di servizio in cui ciascuno dei partner può assumere obbligazioni che coinvolgono anche gli altri partecipanti; Partnership in accomandita (Persektuan Komanditer o CV) che prevedono partner che si limitano al semplice apporto di capitale senza assumere responsabilità di gestione.
Uffici di rappresentanza
Hanno una sfera di attività consentite molto limitata: ricerche di mercato, promozione, controllo di qualità, ricerca clienti ecc. E’ prevista anche la costituzione di uffici di rappresentanza regionali che possono esercitare un’attività di controllo e coordinamento di attività nei mercati limitrofi, oltre all’Indonesia. Poco conveniente è invece la costituzione di filiali di società estere, sottoposte a un addizionale del 20% sugli utili rimpatriati, in aggiunta alla normale aliquota del 28% sui ricavi netti.

Fisco e imposte


Qualsiasi attività economica svolta in Indonesia (inclusi uffici di rappresentanza) è sottoposta alla tassazione sui redditi societari (che includono anche i capital gain). I benefit per i dipendenti in genere non sono detraibili. Le perdite possono essere riportate in bilancio fino a un massimo di 5 anni. L’aliquota è del 28% ma si riduce del 5% annuo per investimenti effettuati in attività e/o aree il cui sviluppo è promosso dal Governo sulla base di una lista di settori specifici o di località considerate come svantaggiate. Ulteriori agevolazioni sono l’importazione in esenzione di dazio di attrezzature e materiali, la possibilità di effettuare ammortamenti anticipati, la riduzione al 10% della ritenuta sugli utili rimpatriati. Analoghi benefici sono previsti per le attività insediate nelle 25 Zone economiche integrate (Kapet: KawasanPengembangan Ekonomi Terpadu). Per alcune attività che vengono considerate innovative (pioneering industries) è possibile ottenere un’esenzione di 10 anni dalla tassazione sui redditi e una riduzione del 50% per altri due, ma devono comportare un investimento minimo di 1.000 miliardi di rupie (102 milioni di dollari). I criteri per identificare queste società sono molto generali: in sostanza devono avere un valore ‘strategico’ per lo sviluppo economico del Paese. Rientrano in questa classificazioni società che operano nei settori minerario (estrazione idrocarburi inclusa), della meccanica strumentale, telecomunicazioni, energie rinnovabili e che introducono nuove tecnologie.
IVA e imposte diverse
L’IVA è pari in media al 10% ma sono esenti diverse categorie di beni strumentali importati. Particolari esenzioni e agevolazioni sull’IVA (e sui dazi) sono previste per le società con attività prevalentemente orientate all’export, che operano in regime di zona franca (KB) o di traffico di perfezionamento passivo (Kite: Kemudahan Impor Tujuan Ekspor) o che sono insediate nelle tre Free Trade Zones di Batam, Bintan e Karimun, tutte nelle arcipelago delle Riau vicino a Singapore. Esenti da IVA anche numerosi servizi (es leasing, attività mediche, di formazione ecc). In cambio altre attività (soprattutto commerciali turistiche) sono sottoposte a tassazione locale, in genere nell’ordine del 10%. Su alcuni beni di lusso (dai profumi alle auto e moto di grossa cilindrata) è prelevata una tassa sulle vendite che può variare dal 10% al 75%. Da mettere in conto anche la tassa sugli immobili pari allo 0,5% del valore catastale equivalente in media al 40% del valore di mercato (ma i parametri possono subire consistenti variazioni). I redditi individuali, a partire da 15,8 milioni di rupie annue (1.780 dollari) sono sottoposti a tassazione progressiva che va da un minimo del 5% a un massimo del 30% per la quota di reddito che supera 500milioni di rupie (54mila dollari).
Operazioni con l’estero
La rupia indonesiana è liberamente convertibile. Le operazioni in valuta non sono soggette a particolari restrizioni ma richiedono una impegnativa attività di reporting alla banca Centrale che svolge una funzione di controllo sull’effettuazione di tutti gli adempimenti fiscali relativi alle operazioni sottostanti. Le società residenti sono tassate sul reddito globale, incluso quindi quello realizzato all’estero, ma le imposte pagate in altri Paesi sono generalmente riconosciute in deduzione qualora esistano accordi bilaterali per evitare la doppia imposizione (sotto questo profilo l’Indonesia appare abbastanza coperta, anche con l’Italia). I transfer price applicati all’interno di gruppi multinazionali con attività in Indonesia possono essere oggetto di definizione preliminare con le Autorità fiscali. I dividendi, interessi e management fees versati a soggetti non residenti sono sottoposti a una ritenuta del 20%. Il pagamento di royalties è sottoposto a una ritenuta del 15% se effettuato verso un soggetto residente e del 20% se straniero. Il personale espatriato che risiede in Indonesia per oltre 183 giorni all’anno è sottoposto a tassazione locale. I capital gain realizzati da non residenti sulla vendita di titoli indonesiani subiscono un’imposta del 5%.

Risorse umane e costo del lavoro


La forza lavoro in Indonesia è mediamente più giovane (28 anni) rispetto alla Cina (35 anni), e anche il costo è nettamente inferiore. Il differenziale appare destinato a durare nel tempo, tenuto conto dei trend demografici. Il salario minimo legale varia a seconda delle località e va da 675 mila rupie nel centro di Giava (75 dollari) a 1.290.000 rupie a Jakarta (142 dollari) e quello effettivo non è molto superiore (attorno al 10/15 per cento in più). Per personale esperto e impiegati si può salire del 30% circa. I contributi sociali obbligatori a carico del datore versate all’Ente previdenziale nazionale (Jamsostek) sono pari al 9,7% (3,7% per la pensione e 6% per la copertura sanitaria). I compensi crescono rapidamente quando si risale la gerarchia aziendale: per un manager senior bisogna calcolare almeno 3mila dollari al netto di benefit diversi e anche per un tecnico di fabbrica esperto, difficilmente si scende al disotto dei 1.300 dollari. Le maggiori difficoltà nel reperimento delle risorse umane riguardano la manodopera specializzata e i quadri tecnici. In genere le aziende suppliscono a questa carenza con corsi di formazione interna o ricorrendo a personale espatriato. L’apprendimento, soprattutto per i più giovani, è generalmente veloce. Non è sempre facile trovare anche dei buoni interpreti. Più agevole il reperimento di quadri commerciali e amministrativi.
Relazioni col personale e normative
La settimana lavorativa è di 40 ore e gli straordinari (che i lavoratori indonesiani non amano eccessivamente) si pagano, mediamente, il doppio. I dipendenti hanno diritto ad almeno 12 giorni all’anno di vacanza. In caso di licenziamento il dipendente ha diritto a un’indennità pari a un mese per ogni anno lavorato e in alcuni casi (lavoratori più anziani) a una buonuscita supplementare. E’ ampiamente ammesso il ricorso al lavoro temporaneo per attività ausiliare e stagionali e in sostituzione degli straordinario nel caso di carichi di lavoro eccezionali. Le aziende con più di 120 dipendenti devono dare accesso a un’organizzazione sindacale interna. I sindacati, in genere, hanno un approccio collaborativo.
Personale espatriato
L’azienda che intende utilizzare personale espatriato deve sottoporre al Ministero del Lavoro un piano specifico (RPTKA) sulla base del quale può esser attivata una procedura che si conclude con il rilascio del un permesso di lavoro e che coinvolge anche l’Ambasciata o i Consolati del Paese di provenienza. Dopodiché il datore di lavoro dovrà versare mensilmente 100 dollari a un apposito fondo (DPKK: Dana Pengembangan Keahlian dan Ketrampilan) che finanzia le attività di formazione professionale nel Paese. Per incarichi temporanei può essere richiesto un certificato provvisorio (Kitas o Pengawasan Orang Asing) rilasciato dall’ufficio Immigrazione. In alternativa può essere rilasciato un certificato analogo (IMTA:Izin Memperkerjakan Tenaga Asing or IMTA) in cui sono specificati la tipologia e la durata dell’incarico affidato. Entrambi i permessi hanno una validità massima di un anno. I lavoratori espatriati sono considerati fiscalmente residenti in Indonesia se soggiornano nel Paese per almeno 183 giorni nell’arco di un anno.

Dogane


L’Indonesia ha applicato per lungo tempo una politica protezionista in materia di commercio estero, ma la situazione sta cambiando a seguito degli obblighi assunti nel contesto di accordi internazionali con particolare riguardo alla World Trade Organisation. Di conseguenza anche i dazi sono stati ridotti e attualmente, per provenienze dai Paesi UE che non beneficiano di alcun regime privilegiato, variano dal 5 al 30% a seconda dei beni. I prodotti di lusso però possono essere colpiti da un’imposta speciale (Lst) che si aggiunge e che può variare dal 10% al 75%. Sono diverse le categorie merceologiche coinvolte: auto, yacht, gioielli, profumi, articoli sportivi, apparecchiature elettroniche, calzature, mobili, cristalleria ecc. All’interno di una stessa categoria peraltro, l’imposta è applicata con criteri differenti a seconda del valore e delle caratteristiche.
I dazi di fascia bassa sono invece applicati ai macchinari e in genere ai materiali e semilavorati che non sono prodotti localmente o che sono disponibili in quantità insufficiente. L’importazione di attrezzature e macchinari può essere oggetto di esenzione (dazi e IVA) anche nel contesto di incentivi specifici concessi dalle Autorità locali per iniziative di sviluppo in settori diversi inclusi: turismo, attività minerarie agricole, sanità, scuola e formazione, attività manifatturiere strategiche, opere infrastrutturali. La lista di queste attività e i criteri di applicazione sono aggiornati ogni anno. Rientrano invece nelle fasce tariffarie più alte i prodotti che fanno concorrenza all’industria locale (abbigliamento, ecc.) tranne le rilevanti eccezioni derivanti dagli accordi di libero scambio in cui l’Indonesia è coinvolta. Considerata la complessità del sistema è opportuno, per le aziende interessate a entrare sul mercato, il ricorso alla consulenza di esperti doganali.
Sistema tariffario e accordi di libero scambio
Le Dogane indonesiane adottano, per l’applicazione delle tariffe, il Sistema Armonizzato(HS). La tariffa applicata però, dipende dalla provenienza geografica in quanto l’Indonesia è legata da accordi tariffari preferenziali con i Paesi ASEAN (Filippine, Singapore, Vietnam, Thailandia, Malaysia, Myanmar, Laos, Brunei) che prevedono un’aliquota massima del 5% per la maggior parte dei prodotti. A sua volta l’ASEAN ha concluso analoghi accordi multilaterali con Cina, Corea del Sud, India, Australia, Nuova Zelanda. Inoltre l’Indonesia è singolarmente legata a un accordo di libero scambio (IJEPA) con il Giappone. Regimi particolari in esenzione di dazio sono applicati per il traffico di perfezionamento passivo (materie prime e semilavorati destinati a essere trasformati localmente e successivamente riesportati) e altri casi particolari: beni utilizzati per esposizione in Fiere o per attività scientifiche, prodotti da sottoporre ad analisi e perizie, campioni commerciali, attrezzature e materiali per lavori pubblici finanziati dai programmi di aiuto e cooperazione internazionali.
Importatori
Per vendere sul mercato indonesiano è indispensabile avvalersi di importatori registrati presso la Direzione delle Dogane e quindi in possesso delle relative licenze e numeri di identificazione. Gli importatori sono sottoposti ad un’imposta sul valore importato pari al 2,5% che viene generalmente riversata sull’acquirente finale. Sono previsti diversi tipi di licenze: importatori generici per conto terzi (API), importatori per utilizzo diretto nell’attività propria (API-P) e importatori autorizzati per prodotti che richiedono una qualifica specifica (licenza AT). Si tratta in genere di prodotti per i quali l’Indonesia cerca di proteggere il mercato interno: calzature, abbigliamento, giocattoli, apparecchi elettronici, riso, zucchero, soia, mais, altri prodotti alimentari. L’importazione di macchinari usati è concessa soltanto per utilizzo diretto. Unica eccezione: le attrezzature ospedaliere.
Valutazione in dogana
I dazi sono applicati con criteri ad valorem su base Cif (Cost, Insurance, Freight). L’Iva all’importazione è applicata sullo stesso ammontare aumentato del dazio. L’aliquota applicata è nella maggior parte dei casi il 10%. Le tasse speciali applicate sui prodotti di lusso sono invece al netto dell’IVA. In linea di principio il costo riconosciuto del prodotto in Dogana è quello che emerge dai documenti commerciali incluse commissioni di brokeraggio e costi di movimentazione in Dogana. In alternativa e in caso di contestazione, si fa ricorso agli usuali metodi valutativi: confronto con prodotti analoghi, calcolo analitico ecc. Per le merci provenienti dai Paesi ASEAN o collegati al sistema ASEAN (Cina, Corea del Sud ecc.) e dal Giappone occorre produrre il certificato di origine secondo uno specifico format.
Zone franche e depositi doganali
Sono esenti da dazi e generalmente anche da IVA, i beni importati che confluiscono nei depositi doganali (dove possono essere oggetto di operazioni di etichettatura, imballaggio ecc.) o nelle zone franche e nei Parchi Industriali finalizzati all’esportazione, dove possono essere oggetto anche di trasformazione industriale. Gli adempimenti doganali e il pagamento dell’IVA e altre imposte vanno però perfezionati se questi beni entrano sul mercato indonesiano. Sotto questo profilo, l’utilizzo di zone franche e depositi doganali consente agli importatori di ridurre le necessità di finanziamento durante il periodo in cui le merci acquistate rimangono nel deposito.


MA SE E' VERO TUTTO QUESTO,PER L'INDONESIA SI PUO' FARE QUALCHE COSA NEL BREVE PERIODO (non riccorrendo al famigerato aumento della benzina!!!!!!!),QUESTA E' UN ANALISI ECONOMICA DEL PAESE, CHE DOVREBBE DARE DELLE NUOVE IDEE, A CHI GOVERNA,
PURTROPPO SAPPIAMO CHE LA BUROCRAZIA,NON HA UNA MENTE APERTA E QUINDI,QUANDO SI INCONTRANO DEGLI OSTACOLI,MEGLIO ANDARE SUL SEMPLICE,AUMENTIAMO LA BENZINA,AUMENTIAMO LE SIGARETTE ETC E SEMPRE A DISCAPITO DELLA POVERA GENTE.DA UNA PARTE SI DA LA TESSERA SANITARIA DI RICOVERO GRATUITA E DALL'ALTRA SI TOGLIE.........
MA PERCHE', IL NUOVO PRESIDENTE, NON PENSA DI TAGLIARE LA SPESA PUBBLICA,TAGLIANDO I POSTI DI LAVORO GOVERNATIVI CHE SONO IN ESUBERO DEL 50%?????PURA UTOPIA LO SO,MA CON UN INFLAZIONE GALOPPANTE, COME QUELLA DELLA INDONESIA( che non si misura solo con il CPI......come fanno gli enti governativi)BISOGNA RICORRERE AI RIPARI,MA "FORSE L'ECONOMIA" E' UNA MATERIA SCONOSCIUTA IN INDONESIA.
RITORNO A DIRE, GOVERNO DI TECNICI (Economisti,Architetti etc), NON BUROCRATI.......MA A "MOLTI" NON CONVIENE.........